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Categories: Cronaca

Don Marcello Cozzi: «Dobbiamo lavorare di più sui collaboratori di giustizia»

Caino, secondo la Genesi, è il primo uomo nato nella storia umana. Il personaggio biblico è, però, anche l’incarnazione umana del male. Un male che, da allora, non ha mai smesso di esistere. Un male che oggi viene – a ragione – spesso paragonato a quello della criminalità organizzata di tipo mafioso. E così ciascun mafioso finisce per diventare un Caino.

Don Marcello Cozzi, già Vicepresidente nazionale di Libera e oggi coordinatore del Servizio nazionale antiracket e antiusura e di accompagnamento ai testimoni di giustizia, ne ha incontrati e conosciuti molti, soprattutto di quei caini che, a un certo punto, hanno capito di essere tali e hanno deciso di saltare il fosso, diventando collaboratori di giustizia.

«Sono persone che hanno fatto un percorso negativo, durante il quale hanno fatto piangere molta gente, e che poi, a un certo punto, hanno deciso saltare il fosso, tanti per convenienza (visti i benefici previsti dalla legislazione), alcuni per un serio ravvedimento. Questi ultimi, da prete, mi piace definirli convertiti più che pentiti.

In generale, però, i collaboratori di giustizia sono un magma di persone sulle quali bisogna avere più attenzione e distinguere quelli che davvero vogliono riprendere in mano la propria vita, perché sono consapevoli di quello che hanno fatto, e chi invece approfitta della legge per poter uscire da quei contesti».

 

«Il primo motivo è che non dobbiamo dimenticare mai il contesto da cui arrivano queste persone. Molte delle persone che ho incontrato e che poi sono finite nel libro ‘Ho incontrato Caino’ (Melampo editore) sono figli di mafia, nati e cresciuti in quei contesti.

Non voglio dire che hanno avuto il destino segnato ma certo in quei contesti avessero avuto la possibilità di incontrare persone, istituzioni e autorità che potevano indirizzarli per tempo in altro modo, forse non sarebbero stati coinvolti in quelle storie e in quegli affari dove invece si sono ritrovati mani e piedi.

Non pochi sono stati quelli che in questi anni mi hanno detto: “Mi ricordo che già a 5 anni, a tavola, sentivo parlare di estorsione e omicidi”. C’è chi mi ha detto che “nel biberon gli hanno fatto bere la ‘ndrangheta”.

Questo non significa che dobbiamo giustificarli perché il discorso sul libero arbitrio è molto pericoloso, ma si tratta di tenere presente che nessuno di loro nasce come un prodotto in vitro o in laboratorio. Molti nascono e crescono in un contesto mafioso ed è un motivo in più per noi per capire cosa fare con gli attuali figli di mafia, con quelli che oggi sempre più vanno a infoltire le file giovanili dei clan criminali.

In questi anni, i pentiti, al netto dei furbi, hanno dato una grande mano allo stato nello smantellare i clan. Dico al netto dei furbi perché, almeno per quella che è stata la mia esperienza, sulle tante cose che dicono ce ne sono molte che non dicono, ci sono sempre mezze verità e mezze bugie ma lo Stato lo sa meglio di noi.

È fuor di dubbio, però, che chi ha dato un vero contributo alla giustizia ha davvero collaborato per lo smantellamento dei clan. Questo ci serve per capire che dobbiamo lavorare di più sull’istituto del collaboratore di giustizia anche per una sfida culturale.

Dobbiamo avere come priorità non solo la confisca dei beni ai mafiosi ma anche del bene più prezioso che hanno i criminali, cioè i loro uomini.

 

«Quando parlo di maggiori investimenti mi riferisco anche a questo. Molte sono storie di abbandoni e non sono pochi quelli che dicono: “Ci hanno spremuto e poi buttato via come un limone”.

Anche qui dobbiamo distinguere tra chi lamenta un vero disagio e chi ne approfitta, ma devo dire che, alla fine del programma di protezione, abbiamo a che fare con persone che ritornano alla loro identità, non sanno dove andare, hanno cancellato una vita intera e si trovano al buio davanti a un futuro incerto.

Questo rientra nel discorso più generico dei detenuti al termine del loro percorso, ma per un pentito, uscire dal programma di protezione, è un problema in più perché per anni sono stati nascosti e poi all’improvviso si trovano scoperti, senza nessuno che copra le spalle.

È un problema serio che non possiamo sottovalutare perché se trovo un pentito che a 55 anni esce dal programma, perché ha finito il suo percorso, che viene capitalizzato ma a cui non bastano i soldi e torna nel suo territorio d’origine, costretto a stare a casa perché a rischio: questa è solo una storia come tante altre che ci deve interpellare.

Quando poi ti dicono “ma chi me l’ha fatto fare” non possiamo licenziarla solo come la lamentela di un ex mafioso che nella vita poteva fare altro. Dobbiamo prenderla sul serio perché se si diffonde tra altri non è una buona pubblicità che facciamo all’istituto dei collaboratori di giustizia».

 

«Quando è sincero il cammino, il senso di colpa per quello che hanno fatto al quale spesso non c’è più rimedio, soprattutto se hanno sulla coscienza vittime innocenti.

Incontro spesso collaboratori di giustizia che dopo anni continuano a prendere psicofarmaci e anti depressivi per dormire. Per chi è sincero, mettersi in discussione è un trauma perché è come mettersi allo specchio. In molti me l’hanno detto: “In 41bis mi sono guardato allo specchio, perché quelle quattro mura mi hanno fatto da specchio”.

C’è poi l‘angoscia di una vita sospesa. Vivere in un programma di protezione sapendo da dove si viene ma non verso dove si va è avere una vita sospesa: non sai cosa farai, hai una nuova identità, devi nasconderti magari anche nel condominio dove abiti perché i vicini ti vedono dalla mattina alla sera non fare niente.

Rimane l’angoscia del futuro. Parliamo di persone che finiscono il programma di protezione a 50-60 anni. Il cammino del collaboratori di giustizia, se sincero, non è mai facile e agevole, sia per il senso di colpa sia per motivi pratici».

 

«Chi lo fa a ridosso di fatti criminali o all’interno di attuali circuiti criminale sicuramente corre un rischio. Dopo 10-15 anni, a volte quel rischio non c’è più, ma non dobbiamo dimenticare che molte mafie, come quella siciliana o calabrese, hanno la memoria di elefante.

Una volta un pentito mi disse: “Fai caso qualche volta ai trafiletti che ci sono sui giornali, che parlano di un pensionato ucciso su una panchina in un parco di una qualunque città del Nord. Magari dicono che è stato uno scippo ma non sempre è così. Molte volte i clan ti inseguono a distanza di anni perché non te le possono perdonare”».

 

«Il mio intento, da sempre, è ascoltare il loro tormento che poi ho raccontato nel libro “Ho incontrato Caino”. Non significa giustificare anche perché la maggior parte di loro non lo fanno con se stessi. Spesso, imparando ad ascoltare, possiamo capire come evitare che altri cadano nelle stesse situazioni.

Una delle cose che hanno in comune queste storie è l’illusione e il mito mafioso: molti hanno vissuto la loro appartenenza alle mafie come un’illusione. Chi ha sbagliato deve pagare e i collaboratori di giustizia, spesso, sono i primi a dirlo».

Articolo realizzato in collaborazione con Lorena Cacace

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Fabrizio Capecelatro

Fabrizio Capecelatro è stato un redattore interno di Nanopress fino al 2018. Si è occupato di politica e cronaca, con particolare riguardo a tematiche incentrate su criminalità organizzata e camorra. Su temi di attualità e di cronaca criminale ha scritto anche su Pourfemme.

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