Lo smart working scende al 15% in Italia, dopo la pandemia le aziende non sono riuscire a mantenere equità tra lavoratori in sede e quelli a casa.
Una legislazione ancora inadatta, le aziende che non riescono a garantire equità. Tante le motivazioni che hanno portato lo smart working quasi a scomparire in Italia. In caso arriva al 15% dopo essere stato sfruttato nel periodo della pandemia.
Smart working, la fine di un sogno per molti tra crisi e una legislatura (ancora) troppo complessa
Pochi nel nostro Paese i lavoratori rimasti a lavorare casa dopo l’emergenza Covid, mentre pare meno raro il sistema di turnazione tra dipendenti che in settimana alternano la presenza in ufficio allo smart working. Il lavoro da casa, remote working come si è chiamato fuori dai confini italiani, ha subito una grande battuta d’arresto nell’ultimo anno complici crisi e caro energia – senza dubbio – dopo un momento in cui pareva che la pandemia avesse lasciato paradossalmente almeno una nuova intuizione.
Si era discusso molto infatti durante l’emergenza Covid di come i lavoratori avessero trovato nuove soluzioni all’ufficio, soprattutto si era data molta più importanza alla qualità della vita, all’orario di lavoro. Ma pare che piano piano ci si stia svegliando dal sogno di poter dividere l’orario settimanale lavorativo tra turni in smart working e in ufficio. Una soluzione che pare sia ancora molto desiderata dai lavoratori, ma che le aziende ormai concedono sempre meno – salvo qualche eccezione.
Le indagini recentemente effettuate su tale tema hanno messo in evidenza come il caro bollette è stata una delle aggravanti, ma Manageritalia pone l’accento soprattutto sulla mancata legislazione. Ancora troppo debole, in alcuni casi eccessivamente complessa, che non aiuta in alcun modo il “lavoro agile”, mentre società e aziende non riescono garantire il giusto rapporto tra chi rimane a casa e chi si reca in sede.
Adesso i dati dicono che post Covid solamente il 15% dei lavoratori lavora da remoto – indagine Inapp – esclusi i lavoratori autonomi dunque si parla di meno di 3milioni di persone. Il massimo era stato invece durante la pandemia 7milioni, compresi i docenti impegnati nella didattica a distanza.
Lo studio però individua una percentuale del 40% nei lavoratori che potrebbero tranquillamente ancora lavorare in smart.
Smart working esperimento fallito? Forse solo rimandato
Il periodo di pandemia, e conseguente lockdown, aveva illuso molti. Improvvisamente il mondo si era accorto di poter organizzare riunioni in video, e lo smart working sembrava il futuro. Ma il salto generazionale al momento è rimandato.
Il presidente Inapp ha fatto sapere nel report come il ritorno alla normalità dopo le restrizioni legate al Covid abbia fatto scoppiare quella sorta di “bolla” nella quale gli impiegati italiani si erano ritrovati. Sebastiano Fadda parla di come il ritorno alla normalità abbia vanificato il potenziale del lavoro da casa causa proprio “una ridotta capacità di introdurre radicali innovazioni nell’organizzazione del lavoro“.
Unica, quasi, a resistere la Pubblica Amministrazione che nel 2022 ha avuto una media di 600mila lavoratori. Tutto ciò è stato possibile grazie alla scelta di misteri, enti pubblici e agenzie di semplificare lo smart working avvicinandolo sempre più a un normale turno d’ufficio in modo tale da non creare paradossi nei pagamenti degli stipendi.
A proposito di sperimentazioni che durante la pandemia avevano fatto sperare in un futuro diversi, molte di queste sono miseramente fallite. Il For working ad esempio, creato da sindacati dei chimici e federchimica che non è stato inserito nel rinnovo del contratto.
Insomma, come confermato dall’indagine di Manageritalia pare che lo smart working richieda un processo di adattamento più complesso di quanto ci si poteva immaginare, e in questo senso la legislatura non ha aiutato. Il processo di transizione verso quello che si pensava essere il futuro è al momento rimandato, e questo nonostante le semplificazioni della normativa post pandemia.
Ma gli ostacoli non finiscono qui. Se si considera infatti le dimensioni delle aziende in Italia, che per quasi il 90% risultano molto piccole, queste non si prestano affatto al lavoro da casa. Un’azienda da cinque dipendenti infatti non può permettersi, nell’84% dei casi, che i propri dipendenti effettuino mansioni da casa. Le quote si riducono con l’aumento degli addetti, mentre nelle grandi e nelle multinazionali la formula più utilizzata è quella del tre più due, ossia tre giorni in ufficio e due a casa.
Si potrebbe parlare dunque di esperimento fallito, ma probabilmente con il passare del tempo si troveranno nuove soluzioni, anche se è evidente come terminata l’urgenza della pandemia il lavoro da casa sta faticando ad affermarsi.