Ci sono nei risvolti nella vicenda che ha coinvolto le due attiviste Felicetta Maltese e Virginia Fiume, che hanno accompagnato solo pochi giorni fa una donna di 89 anni gravemente malata in Svizzera, per permetterle di porre fine alla sua vita dignitosamente. Ebbene, quello che ha deciso la Procura potrebbe aprire la strada a nuove interpretazioni del trattamento di sostegno vitale e, quindi, del suicidio assistito.
L’eutanasia e il suicidio assistito sono due pratiche – inquadrate in modo del tutto diverso nel nostro ordinamento – molto discusse in Italia da tempo immemore. Sono questi da anni ormai dei temi più che controversi, che adesso potrebbero lasciare spazio a nuove interpretazioni e, perché no, nuove leggi.
Qualcosa potrebbe muoversi sul tema dell’eutanasia e del suicidio assistito. Finalmente. Potrebbe, ma non è detto che accada. Potrebbe, ma potrebbe anche non succedere assolutamente nulla. Sì, perché potrebbe, ma di potrebbe ce ne sono già stati troppi in passato. Il problema è che mentre noi parliamo, in Italia ci sono persone che soffrono ogni giorno e che vorrebbero semplicemente porre fine alle loro sofferenze, che sono esauste e stremate dal dolore, che vorrebbero solo trovare un po’ di pace, quella vera però. Mentre noi discutiamo su questi temi ci sono persone che li vivono, che ci nuotano dentro non per loro volere, che devono fare i conti ogni giorno con la loro condizione disperata di salute. Ma qualcosa potrebbe muoversi, dicevamo.
Prima di capirci di più, però, dobbiamo fare qualche precisazione. Innanzitutto, dovremmo comprendere la distinzione tra eutanasia e suicidio assistito. Nel primo caso, parliamo del “procurare intenzionalmente e nel suo interesse la morte di un individuo la cui qualità della vita sia permanentemente compromessa da una malattia, menomazione o condizione psichica” (credits: Wikipedia).
Questa può essere attiva – quando il medico somministra al paziente che lo richiede espressamente un farmaco letale – e passiva – quando semplicemente il medico interrompe le cure – ma dal punto di vista giuridico non cambia nulla: in Italia sono entrambe vietate. Punto.
Nel caso del suicidio assistito, invece, è il paziente ad autosomministrarsi un farmaco fornitogli comunque da una équipe medica. Qualcuno potrebbe a questo punto farci notare (giustamente) che la differenza con l’eutanasia è davvero sottile perché, al netto del modus operandi, la sostanza non cambia: in entrambi i casi, la persona decide liberamente di porre fine alla sua vita, quando e come vuole, senza doversi più piegare a lei, ma scegliendo come gestirla. Eppure, dal punto di vista pratico, pare che la differenza sostanziale sia che, mentre nel primo caso non è il soggetto che lo richiede ad assumere il farmaco, ma è un medico a somministrarglielo, nel secondo l’individuo in questione agisce in modo completamente autonomo. Cambia tanto? No, perché è sempre la persona a richiederlo, eppure dal punto di vista normativo le due pratiche sono inquadrate in maniera del tutto differente.
L’eutanasia in Italia – e in molti altri Paesi – costituisce un reato: è in pratica assimilabile all’omicidio volontario. A regolarla è – non a caso – il codice penale e, in particolare, sono l’articolo 579 (“Omicidio del consenziente: chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’articolo 61”) e l’articolo 580 (“Istigazione o aiuto al suicidio: chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni”).
Il suicidio assistito, invece, è consentito dalla legge. Anzi, vi diremo di più: costituisce un diritto inviolabile dell’uomo, sulla base dell’articolo 32 della Costituzione (“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”) e della legge 219/2017 (che parla del consenso informato in pratica).
Dobbiamo specificare, però, che, stando alla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, per poter ricorrere a questa pratica è necessario che coesistano diverse condizioni. Il richiedente cioè deve: essere perfettamente capace di intendere e di volere, essere affetto da una patologia non curabile, vivere in una condizione di sofferenza fisica e mentale intollerabile ed essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.
Se viene meno anche solo uno di questi requisiti, crolla tutto il castello e la pratica non è più consentita (questo punto è di fondamentale importanza e tra poco capirete perché).
Qualche anno fa sembrava che qualcosa già stesse per cambiare: la Corte Costituzionale aveva spinto il Parlamento ad approvare una legge sul tema dell’eutanasia e, meno di un anno fa – cioè precisamente nel marzo del 2022 – la Camera aveva approvato un disegno di legge su questo tema – con cui in sostanza la morte volontaria medicalmente assistita veniva equiparata alla morte naturale – con 253 voti a favore, 117 contrari e una sola astensione. Qui però arriva la nota dolente: quando il testo è arrivato in Senato si è fermato. Lì è rimasto e da allora non abbiamo avuto più notizie rilevanti sul tema.
Arriviamo a qualche giorno fa. Inizia a girare praticamente ovunque una notizia (l’ennesima su questo argomento): Paola R., una donna di 89 anni, era dovuta partire per la Svizzera per porre fine alla sua vita, segnata irrimediabilmente dalla malattia.
Qualche tempo fa si era rivolta all’Associazione Luca Coscioni, a cui aveva chiesto disperatamente aiuto alla luce del fatto che le sue condizioni erano irreversibili e che per la sua patologia ad oggi non esiste una cura. Paola, infatti, era affetta dal morbo di Parkinson: era il 2012 – quindi, a conti fatti, aveva circa 78 anni – quando iniziò ad avvertire un malessere, ma la diagnosi arrivò solo nel 2015. Da lì, il declino inesorabile: il suo destino era già segnato, perché le malattie degenerative sono così: iniziano all’improvviso, peggiorano e continuano ad agire incontrastate finché non assolvono al loro tristissimo compito di far spegnere chi hanno deciso di colpire. “Ora sono vigile in un corpo diventato gabbia senza spazio né speranza. Anzi stringe, ora dopo ora, inesorabile la morsa”: queste le sue parole.
Sì, perché la sua malattia, “un parkinsonismo irreversibile e feroce (taupatia)”, era ormai arrivata a uno stadio tale che non le consentiva più di vivere, nel vero senso della parola. Non era autonoma, non poteva fare praticamente nulla senza l’aiuto di qualcuno. Era diventato per lei anche solo compiere azioni che potrebbero sembrare banali, come mangiare. E, soprattutto, non poteva più fare nulla pur essendo cosciente di questo e probabilmente è proprio questa la parte terribile della malattia.
Purtroppo, però, in Italia non sarebbe mai potuta ricorrere al suicidio assistito. Ricordate che poco fa vi abbiamo parlato dei quattro punti fondamentali perché questo sia concesso e detto che se anche solo uno fosse caduto sarebbe crollato tutto? Ebbene, nel suo caso non era tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. E quest’ultimo punto ha fatto davvero la differenza.
Paola probabilmente, come moltissime altre persone prima di lei, avrebbe preferito morire a casa sua, circondata dagli affetti più cari. E invece no, è dovuta andare in Svizzera per farlo. Ad accompagnarla in questo viaggio verso la fine della sua vita e l’inizio della sua pace, le due attiviste di Eutanasia Legale, Felicetta Maltese e Virginia Fiume. Arrivata lì, l’89enne si è sottoposta a tutti i controlli “di routine” e alla fine si è autosomministrata la dose di farmaco eutanasico.
Il giorno successivo, come da prassi – come aveva fatto in passato più volte anche Marco Cappato, il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni celebre (tristemente dovremmo dire) per aver aiutato Dj Fabo e altre persone a morire – le due attiviste si sono dovute recare presso la caserma dei Carabinieri Sezione Polizia Giudiziaria, a Bologna, per autodenunciarsi. Felicetta Maltese e Virginia Fiume rischiavano da 5 a 12 anni di carcere. Eppure alla fine è accaduto qualcosa di impensabile.
Felicetta Maltese e Virginia Fiume si sono recate presso la caserma dei Carabinieri Sezione Polizia Giudiziaria, a Bologna, per autodenunciarsi e dichiarare di aver accompagnato Paola R. in Svizzera a morire per una sua scelta. Del resto, non avrebbero potuto fare altrimenti, perché la legge prevede questo.
Nessuno si sarebbe potuto aspettare quello che, di fatto, è accaduto. La Procura ha iscritto loro due e Marco Cappato nel registro degli indagati per istigazione e assistenza al suicidio e questo era “ovvio” (ahinoi, qui la legge prevede questo), ma qui arriva il colpo di scena: dopo pochi giorni, ha chiesto per loro l’archiviazione, ma sono le parole del Procuratore Giuseppe Amato ad accendere un barlume di speranza.
Come ha affermato Filomena Gallo, avvocato difensore di Marco Cappato, infatti, Amato nella sua richiesta avrebbe scritto: “Dovrebbe porsi una questione di costituzionalità dell’art. 580 c.p., per contrasto con gli articoli 2 e 3 della Costituzione, laddove si ritenesse ancora di rilievo penale la condotta di aiuto al suicidio intendendo la condizione dell’essere ‘tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale’ come impeditiva dal ricomprendervi anche la somministrazione di farmaci non immediatamente ‘salva vita’”.
Marco Cappato, non a caso, ha così commentato l’accaduto: “Attendiamo quali saranno le decisioni del giudice per le indagini preliminari. Se la linea delle Procura fosse accolta, si creerebbe un precedente importante per il diritto alla libertà di scelta di quelle persone che non sono strettamente ‘tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale’ (come previsto dalla Corte costituzionale per accedere all’aiuto medico alla morte volontaria) ma che sarebbe discriminatorio escludere dal diritto di essere aiutati alla morte volontaria in presenza di patologie irreversibili e sofferenze insopportabili. Se dunque questa decisione fosse confermata, si tratterebbe di un risultato fondamentale ottenuto dalle azioni di disobbedienza civile di Felicetta Maltese, Virginia Fiume, Chiara Lalli e me, oltre che a quella dei 17 iscritti a Soccorso civile, nel quadro della lotta dell’Associazione Luca Coscioni da Piero Welby a oggi. Attendiamo con fiducia e speranza la decisione definitiva.”
Secondo il procuratore, infatti, questo concetto dovrebbe essere esteso anche ai “trattamenti farmacologici la cui riduzione potrebbe determinare un peggioramento delle condizioni e portare poi alla morte”. Se il Gip dovesse seguire questa linea di pensiero, verosimilmente potrebbe intervenire la Corte Costituzionale e cambiare le carte in tavola.
Del resto c’è una sentenza di cui si parla sempre troppo poco: quella emessa dalla Corte di Appello di Genova, che aveva assolto Mina Welby e Marco Cappato per aver accompagnato in Svizzera Davide Trentini. L’uomo era affetto sclerosi multipla in forma grave da più di vent’anni, non era attaccato a nessuna macchina: questo gli aveva reso quindi impossibile ricorrere al suicidio assistito in Italia, per la mancanza del succitato requisito.
Eppure in quel caso la Corte aveva deciso che per “sostegno vitale”, si intendesse un qualsiasi tipo di trattamento sanitario, anche quindi farmacologico, compresi la nutrizione e l’idratazione artificiali quando la loro interruzione avrebbe portato alla morte, anche non immediata. I giudici decisero di tutelare al 100% la libertà di autodeterminazione del malato ed emanarono una sentenza conforme a quella della Corte costituzionale 242/2019, che inevitabilmente ha creato già un precedente e quindi ha aggiunto una nuova causa di giustificazione in presenza della quale il suicidio assistito non è punibile.
La nuova archiviazione (finalmente) darà il via a una svolta? Chi può dirlo (visti i precedenti). Non ci resta che aspettare (e sperare).
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