Paulo Dybala è rinato con la cura di José Mourinho e prima ancora sotto l’ala protettiva della Roma. I motivi sono diversi e vanno cercati dal punto di vista tattico, sicuramente, in una questione ambientale e poi anche nelle azioni e nelle differenze di due allenatori vincenti, simili ma anche divergenti. La Joya è tornata a spargere il suo talento in Serie A e in Europa e questo è comunque un dato di fatto.
Dybala è un calciatore speciale. Un presupposto che è punto di inizio e anche di arrivo di qualsiasi analisi, perché non può essere uno come gli altri uno con quel mancino e quel pensiero, uno che legge calcio nella maniera tipicamente argentina, tanto da cambiare i ritmi a suo piacimento, e poi finalizzando come una punta vera. Il genio e la fragilità, perché altrimenti non si spiegherebbe l’altalena di prestazioni in carriera e potrebbe essere dipeso anche da chi l’ha allenato.
Dybala e Mourinho, l’archetipo del matrimonio che funziona
L’ultima estate è stata decisiva per il destino di Dybala come calciatore. E lui lo sapeva benissimo, tanto da prendersi il tempo giusto per pensarci, e poi scegliere con convinzione. L’argentino è arrivato alla naturale scadenza del contratto con la Juventus, dopo che i bianconeri l’hanno lasciato lì in attesa, come uno qualunque, per poi comunicare ufficialmente che le loro strade si sarebbero separate. I tifosi della Vecchia Signora l’hanno amato Dybala, e profondamente, questo sia chiaro, e si è visto dal saluto commosso e sincero che tutti quei puntini dell‘Allianz Stadium hanno dedicato al loro idolo. Lacrime d’addio, ma di chi si lascia bene e senza rancore, convinti di aver costruito qualcosa di bello.
L’attaccante, però, aveva bisogno d’altro e probabilmente di uno come José Mourinho a posargli il braccio sulle spalle per poi dargli una piccola spinta sulla schiena al momento dell’ingresso in campo. Perché Dybala lo conosciamo bene dopo tanti anni in Italia. Non è uno da bastone e carota, da urla nello spogliatoio, dal carattere difficile. È quella faccia pulita, da bravo ragazzo, che poi bravo ragazzo lo è davvero. Non è uno che si carica sulle spalle l’intera squadra, ma quella dolce scintilla, a volte silenziosa e pacata, che cambia la storia di una partita.
Dybala semplicemente deve sentirsi importante e anche un po’ coccolato, che male non fa. In questo Mourinho è bravissimo e, anche in questo caso, lo sappiamo bene per la sua meravigliosa storia all’Inter. È quello del ‘o con noi o tutti contro di noi’, del gruppo compatto, del dialogo aperto e della comprensione. Non è borghese, Mourinho; è quel Dio del calcio povero, che è diventato ricco, senza risultare un povero arricchito. È quello della pizza sul pullman, non del caviale in albergo. E vicino alla squadra c’è sempre, anche se non è d’accordo, fino a fare quadrato contro gli avversari, i media, il rumore di quei nemici imprecisati e fastidiosi che, se non ce li ha, se li crea.
Banalmente è ciò che serviva a Dybala che, dopo il lungo corteggiamento dell’Inter, dove avrebbe trovato tanti amici, ha scelto di non essere uno dei tanti in nerazzurro, e di posto non ce n’era più, ma il talento intorno al quale costruire un nuovo ciclo. Alla Roma, Dybala è la stella che sta lì immobile appena alzi gli occhi, ma in continuo girovagare, senza smettere di brillare. Da lui passa il gioco, lui lo accelera, lo allarga, attacca la profondità. Poi lo trovi a concludere, come contro l’Inter, e uno come lui non sbaglia. È quel sentirsi nella zona di comfort, che non deve essere per forza una bestemmia o un limite. Sì, la Joya alla Roma è tornata e non deve più essere costantemente sotto processo se le cose capita che non vadano bene. Anzi, lui semmai è la luce di tutto che indica la via del successo e così viene percepito dai tifosi.
Poi, dal punto di vista puramente tattico, chapeau a Mourinho, ma non è una novità. Il portoghese gli ha lasciato la libertà che si concede ai campioni. Non lo limita in fascia, per carità, e lo si ritrova come punta aggiunta con la possibilità di far male tra le linee, se gioca Tammy Abraham, ma anche da nove atipico e quindi senza dare riferimenti fissi agli avversari, con licenza di colpire, come quando ha steso i ragazzi di Simone Inzaghi. Un mix tra il Dybala della Juventus, quello di Maurizio Sarri e dei primi anni, e il Dybala del Palermo, quello a cui piaceva attaccare ossessivamente la profondità e con un fiuto del gol che gli invidiano anche le prime punte d’area. Perché la Joya è questa, un calciatore speciale e con caratteristiche tutte sue, come i campioni, ma che va accarezzata senza strattoni per vederne i bagliori più lucenti.
Cosa non ha funzionato con Allegri e la Juventus
In definitiva, la scelta della Roma ha pagato e come per l’argentino, almeno per il momento e per i motivi che vi abbiamo scritto. Ma ora la domanda sorge spontanea: cosa non ha più funzionato alla Juventus? Sia chiaro, Dybala deve essere grato ai bianconeri e viceversa, perché l’amore è stato immenso e, a furia di esultanze, maschere, gioie e palloni raccolti dagli avversari nella rete, la storia l’hanno scritta.
Qualcosa poi, però, è successo, per forza di cose. Prima di tutto, gli infortuni e il Covid. Sì, perché il virus l’argentino l’ha patito parecchio e anche dopo essersi negativizzato. Poi i problemi muscolari, tantissimi, troppi, che anche i più forti fanno fatica a trovare la continuità e la squadra ne risente tutta. Non bastassero questi di motivi, c’è stato Cristiano Ronaldo, con cui la convivenza tattica non ha mai davvero funzionato. Due giocatori così meravigliosi sono difficili da reggere per una squadra che aveva bisogno anche di una punta che facesse manovra e poi di filtro e ordine a centrocampo. E tocca anche metterci spinta sulle fasce. E alla fine si gioca in undici, quindi è tosta metterli tutti insieme.
Se Sarri ci ha provato e per certi versi può dire di esserci riuscito, per Allegri non è stato proprio lo stesso. Il tecnico livornese è un equilibrista della semplicità e alla fine i conti devono tornare, affinché tutto funzioni sul campo da gioco. I contrasti vanno vinti, la squadra deve spingere e rientrare. Non bisogna prendere gol, principalmente. E poi davanti ci sono i campioni e ti devi anche affidare un po’ a loro. Come nel basket, ma con spazi e tempi dilatati. Dybala probabilmente in questi equilibri non ci stava più tanto comodo, né con una squadra che aveva più bisogno sugli esterni che sulla trequarti, anche dopo che Ronaldo ha svuotato l’armadietto.
Poi ci sono i rapporti umani e lì vorremmo tutti una piccola telecamerina nelle stanze di Vinovo e sui campi per sapere davvero com’è andata. Nessun litigio, per carità, e massimo rispetto per i ruoli e i campioni, uno in panchina e l’altro sull’erba, ma anche quando la Juventus ha dato a Dybala le chiavi della squadra è come se le spalle della Joya non fossero pronte a sopportarne il peso. Perché, appunto, le coccole a volte fanno più delle pretese o delle aspettative.
E così vanno lette le parole di Dybala dopo la sconfitta contro il Betis: “Credo che Allegri e Mourinho siano molto simili in alcune cose e in altre no. Con Mourinho però ci confrontiamo tanto, abbiamo un dialogo maggiore, rispetto a quello che avevo con Allegri. Con lui molte volte non andavamo d’accordo su tante cose, ma entrambi pensavamo al bene della Juve. Non è polemica, non voglio che si faccia, perché Allegri è uno degli allenatori che mi ha dato di più”. E noi polemica non ne faremo, ma con la piena consapevolezza che l’Olimpico ora ha adottato un Dybala nuovo. Più maturo, più forte, con la stessa voglia di trascinare tecnicamente la squadra. E alla fine, è colpa di nessuno e di entrambi se le cose non vanno, ma l’importante è lasciarsi bene. E il 21 con il mancino divino e la Juventus l’hanno fatto.