A 82 anni e due mesi, ci ha lasciato uno dei più grandi calciatori di sempre: Edson Arantes do Nascimento, in una parola Pelé. L’ex attaccante brasiliano, che con la Seleçao ha vinto tre Mondiali, soffriva da tempo di un tumore al colon che, a quanto avevano spiegato dall’ospedale Albert Einstein di Rio de Janeiro in cui era ricoverato, era peggiorato nell’ultimo periodo.
Una vita dedicata al suo Santos, la squadra dello stato di San Paulo, che lo ha lanciato nel calcio professionistico e che lui non ha mai tradito, con altri club ma soprattutto perché, con loro, ha vinto tutto: Cope Libertadores, Coppe Intercontinentali e chi più ne ha più ne metta. Pelé poteva essere anche una stella dell’Inter, perché Angelo Moratti era riuscito a strappargli un accordo, ma lui ormai era diventato patrimonio del Brasile e, come tale, era rimasto là a continuare a incantare con la pelota.
L’eterna diatriba, dilemma su chi sia stato più grande tra Pelé e Diego Armando Maradona, nel calcio, non si esaurirà mai, neanche ora che, entrambi, non ci sono più. A poco più di due anni di distanza dal Pibe de oro, infatti, anche l’attaccante più prolifico e più vincente della storia del Brasile ci ha lasciati. Il tumore al colon, in stato di metastasi da tempo, non ha lasciato scampo a O Rei, che si è spento a 82 anni a Rio de Janeiro, nell’ospedale Albert Einstein in cui era ricoverato per l’aggravarsi della sua malattia.
La vita del Pallone d’oro del secolo per la Fifa è stata interamente dedicata al mondo del pallone, da quando, da piccolo, aveva deciso di seguire le orme del padre Dondinho – che aveva abbandonato troppo presto il rettangolo verde per un infortunio al ginocchio -, e prendeva a calci un calzino arrotolato e un mango. Non era ricca la famiglia di Pelé, e i soldi per comprare un pallone vero non c’erano, la passione, il talento quelli sì, non erano mai mancati.
Piedi fatati, destro e mancino, entrambi, tecnica, abilità atletiche, intelligenza e velocità erano le caratteristiche che, a 15 anni, a Bauru, città in cui si era trasferito a cinque anni, fecero innamorare Waldemar de Brito, talent scout che orbitava sia nella nazionale brasiliana, sia nel Santos.
E i Peixe diventarono la sua nuova casa, quella che non hai mai abbandonato, nonostante le richieste di Real Madrid, Juventus, Manchester United, dei grandi d’Europa, insomma. A meno di 16 anni, il 7 settembre del 1956, fece il suo debutto con i grandi e, come tutti i grandi o i predestinati, segnò un gol nell’amichevole contro il Corinthias de Santo André. Quello stesso anno, la Perla Nera si laureò come capocannoniere del campionato Paulista, attirando l’attenzione della Seleçao. E fu in un’altra amichevole, stavolta con gli eterni rivali dell’Argentina, che Pelé fece il suo esordio con il suo Brasile, segnando (di nuovo).
Le magie di O Rei si divisero equamente tra le sue due squadre. Con la maglia della Nazionale, nel 1958, a nemmeno di 18 anni, in Svezia, vinse il primo Mondiale di sempre per i sudamericani, diventando anche il più giovane calciatore ad aver giocato una partita della fase finale della coppa del mondo, il più giovane marcatore nella storia della coppa del mondo, e quindi anche il più giovane giocatore ad aver vinto la coppa del mondo. Ma non gli bastò e in finale si regalò anche una doppietta e uno dei più grandi gol nella storia dei Mondiali: un pallonetto a superare il difensore che lo marca e poi un tiro al volo preciso.
Nel 1962, nell’edizione successiva che si disputò in Cile, il Brasile conquistò ancora, ma Pelé non fu protagonista, ma tornò a esserlo nel 1970, in Messico, quando, in finale contro la nostra Italia, siglò il primo dei quattro gol dei verdeoro. Il Sunday Times lo omaggiò con un titolo che rimarrà nella storia: “Come si scrive Pelé? D-I-O“.
In mezzo, per altro, ci furono gli sfortunati Mondiali in Inghilterra del ’66 in cui si infortunò al ginocchio dopo una brutta entrata, nella prima partita contro la Bulgaria, di un difensore avversario. Tornò per la terza partita contro il Portogallo, ma la storia si ripeté e il Brasile, privato del suo miglior giocatore che zoppicava in campo, uscì ai gironi.
Al Santos, in 19 stagioni, vinse dieci titoli paulisti, cinque Taça Brasil (il corrispondente passato del campionato brasiliano), tre Tornei Rio-San Paolo, una Taça de Prata, due Coppe Libertadores, due Coppe Intercontinentali e una Supercoppa dei Campioni Intercontinentali, e segnò 647 gol in 655 presenze, con una media di quasi una rete a partita. Numeri che, soprattutto nel 1958, attirarono l’attenzione dell’Inter di Angelo Moratti.
L’arrivo a Milano e in Italia non si concretizzò, nonostante l’accordo di massima che i nerazzurri e Pelé, trovarono perché un tifoso dei Peixe, appresa la notizia, aggredì il presidente brasiliano e costrinse Moratti a stracciare il contratto firmato con la Perla Nera che, tre anni più tardi, il governo del Brasile lo dichiarò Tesoro nazionale rendendo ogni suo probabile trasferimento non più immaginabile.
In effetti, però, nel 1974, tre anni dopo (ancora) aver detto addio al Brasile con cui, invece, segnò 77 reti in 92 partite (una media di 0,837 gol), Pelé decise di smettere con il calcio. Non troppo convinto, riprese un anno più tardi, con i New York Cosmos, squadra della North American Soccer League. L’obiettivo del proprietario del club, che assieme a Pelé si accaparrò anche Carlos Alberto, Franz Beckenbauer e il nostro Giorgio Chinaglia, era quello di lanciare il calcio in America del Nord. Anche negli States, la stella del calcio illuminò e nel 76′ venne eletto MVP nel ’76, un anno prima di appendere definitivamente e per sempre le scarpette al chiodo.
Era il primo ottobre del 1977 e Edson Arantes do Nascimento salutò il mondo del calcio con un’amichevole tra le sue due uniche squadre. In un Giants Stadium tutto esaurito, le ultime immagini di Pelé con la palla tra i piedi vennero trasmesse nelle televisioni di 38 Paesi. A vincere, quella partita storica, fu il Cosmos per 2-1, con una rete di O Rei, ovviamente, che il primo tempo giocò con la casacca degli statunitensi, per poi passare nelle fila del Santos. A stravincere, invece, fu sempre lui: quell’uomo non tanto alto, ma veloce e potente come nessuno.
Quell’uomo che è una leggenda ancora oggi, che non c’è più e che tutti piangono, dal Brasile al più remoto degli Stati: calciatore del Secolo per la Fifa, per il Comitato Olimpico Internazionale e per l’International Federation History & Statistics, Pallone d’Oro Fifa del secolo e anche onorario, 1281 reti in 1363 partite. Quell’uomo che è stato anche Patrimonio storico-sportivo dell’umanità.
“Pelé ha giocato a calcio per ventidue anni e durante quel periodo ha promosso l’amicizia e la fraternità mondiali più di qualunque ambasciatore“, disse l’ambasciatore brasiliano presso l’Onu, J.B. Pinheiro, ruolo che dal 1992 ricoprì anche lo stesso O Rei.
Protagonista di film, autobiografie, documentari, colonne sonore, videogiochi, firmò anche una legge come ministro che riduce la corruzione nel calcio brasiliano. Pelé per anni ha lottato per l’educazione dei giovani contro l’uso di sostanze stupefacenti, contro le discriminazioni razziali e sessuali dentro e fuori il rettangolo di gioco. Nel 2021, poi, è stato operato per il tumore al colon, lo stesso male che un anno dopo non gli ha lasciato scampo. Ma se la battaglia più importante, uno dei calciatori più forti di sempre l’ha persa, non si può dire lo stesso della sua carriera: colorata di verde, sì, ma soprattutto d’oro.
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