Dal 15 aprile il Sudan è terra di conflitti ma per evacuare i civili, le due parti hanno prorogato la tregue cominciata lunedì.
Purtroppo però in alcuni casi non viene rispettata e non è chiaro quanto potrà reggere, infatti in questi gironi sono stati segnalati scontri sia nella capitale Khartum che nella regione del Darfur occidentale ma anche in altre province del Paese.
Scontri in Sudan
Dal 15 aprile due gruppi militari stanno combattendo in Sudan, si tratta delle forze del generale Abdel Fattah al Burhan, che è il capo dell’esercito regolare e il gruppo militare Rapid Support Forces (RSF), comandato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo. Rispettivamente i due sono anche presidente e vicepresidente.
Prima ancora di darsi filo da torcere sul campo di battaglia, fra i due esponenti c’era una lotta diversa, infatti si discuteva politicamente sul destino del governo sudanese e in particolare sulle condizioni in cui sarebbe dovuto avvenire il passaggio a un governo civile.
Gli attriti sono sfociati in realtà in qualcosa che di civile ha ben poco infatti come se non bastasse il conflitto in corso in Ucraina, ora è scoppiata un’altra guerra che ha colpito il Sudan in maniera interna ma con forti ripercussioni anche nei Paesi limitrofi.
Tanti i civili che stanno morendo, finora sono più di 500 coloro che hanno perso la vita e i feriti sono oltre 4.000, sebbene si tratta di un bilancio provvisorio che potrebbe peggiorare da un momento all’altro, anzi molti credono che i numeri già siano molto più alti di questi.
I due eserciti, di fatto uno ufficiale e uno parallelo, hanno dato vita a una situazione di tensione che è degenerata rapidamente. Fra bombardamenti, attacchi aerei e colpi di artiglieria, presto il Sudan è diventata una trincea, specialmente la capitale ma anche nelle zone limitrofe a Khartum.
Il rischio maggiore è che si trasformi in una guerra civile, spettro che pesa su un Paese che già è molto instabile e in cui ci sono conflitti etnici in corso.
I disaccordi fra Abdel Fattah al Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo andavano avanti da tempo prima di sfociare in questo modo e riguardavano vari punto, fra cui la condizione per cui le RSF avrebbero dovuto unirsi all’esercito del Sudan creando un’unica forza armata sotto un solo comando. Dopo pesanti accuse reciproche era evidente ormai che lo scontro politico sarebbe diventato preso uno scontro militare.
La tregua e il rimpatrio dei cittadini stranieri
Le forze che si stanno scontrando però hanno raggiunto un accordo per la tregua, in modo da consentire ai civili e ai cittadini stranieri di completare le operazioni di evacuazione. Queste persone vogliono chiaramente scappare dai territori dove gli scontri sono più violenti e per questo i gruppi militari hanno iniziato dalla mezzanotte di lunedì una tregua che ora è stata prorogata di 72 ore ma appare abbastanza instabile.
La decisione è avvenuta grazie alla mediazione di vari Paesi che confinano con il Sudan, i quali hanno lavorato insieme a Regno Unito, Stati Uniti e ONU per salvaguardare quante più vite umane possibili. Sono tanti gli innocenti quando si parla di guerra e anche in questo caso, l’aspetto più terribile sono le vittime collaterali di questioni politiche che vengono risolte con bombe e missili.
Nonostante il periodo di tregua vengono segnalati alcuni episodi ma in generale la situazione è piò o meno calma. L’evacuazione di italiani ed europei dal Sudan, privilegio che non c’è stato in situazioni analoghe in altre parti del mondo, è stata completata domenica con l’intervento dei reparti speciali: nel Paese restano però i medici e gli infermieri italiani di Emergency, che hanno scelto autonomamente di rimanere per aiutare i pazienti nelle strutture.
Dopo la richiesta di lasciare il Paese in guerra, il ministero della Difesa si è attivato per riportare in patria i nostri connazionali e lo stesso hanno fatto gli altri Paesi con i loro cittadini. Sono circa 150 gli italiani che dopo 9 giorni di scontro sono fuggiti ma le operazioni sono state abbastanza complesse perché l’aeroporto di Khartum è stato danneggiato, così i voli sono partiti da quello più piccolo che si trova a Wadi Sednia.
Per raggiungere questo luogo a 16 chilometri dalla capitale, il viaggio è stato lungo per evitare il centro della città, zona in cui il conflitto è più nel vivo. Alla fine però i cittadini sono stati evacuati e oltre a quelli italiani, così è stato anche per i francesi, gli spagnoli, i tedeschi e quelli di altre nazionalità, recuperati dai voli di rimpatrio organizzati dalle forze armate dei propri Paesi.