Il 2 ottobre 150 milioni di brasiliani si potranno recare alle urne per eleggere il prossimo presidente del colosso sudamericano. Secondo i sondaggi, si preannuncia una sfida tra Jair Bolsonaro, l’attuale leader in carica, e Luiz Inacio Lula da Silva, l’ex capo di stato a guida del paese per due mandati tra il 2003 ed il 2011.
Eppure non si può di certo parlare di un testa a testa, in quanto secondo le analisi statistiche, Lula avrebbe un vantaggio di ben 21 punti sullo sfidante, divario oltretutto in costante aumento nelle ultime settimane.
I voti di protesta del 2018 che avevano condotto Bolsonaro a capo del governo, sulla scia del momento internazionalmente aureo per i cosiddetti “movimenti populisti”, sembrano essere evaporati di fronte ad una gestione non brillantissima del politico con origini venete.
Al di là delle posizioni destrorse più volte espresse dall’attuale inquilino del Palacio do Planalto (la sede della presidenza della repubblica carioca), a pesare sull’operato del premier in carica è stata la politica ambientale legata alla gestione del patrimonio boschivo della foresta Amazzonica e le contromisure atte a contenere l’epidemia da Coronavirus.
Per quel che concerne il primo aspetto, il membro di punta del Partito Liberale ha messo in pratica l’antica massima attribuita a Vespasiano: “pecunia non olet”, svendendo i terreni del “polmone del mondo” a ricche imprese locali ed estere che hanno attuato una politica di forte disboscamento. Del resto le posizioni scettiche sul cambiamento climatico di Bolsonaro sono da tempo note.
Tuttavia i vantaggi per pochi a discapito dei molti (se non di tutti, vista l’importanza dell’Amazzonia nel ripulire l’atmosfera dall’anidride carbonica), nonché l’ira delle popolazioni di cacciatori e raccoglitori ancora viventi in questi luoghi e salvaguardate da leggi nazionali, hanno causato una prima battuta d’arresto nei consensi per il presidente.
Ancor più disastrosa è stata la gestione del Covid-19: il Brasile è stato uno dei paesi più colpiti dal morbo; nonostante ciò le risposte del governo sono state tardive e tese a sminuire il problema. Ciò a provocato le dimissioni di vari esponenti dell’esecutivo (il ministro della salute è stato sostituito ben 4 volte) e addirittura la messa in stato d’accusa del premier stesso, indicato quale responsabile dell’inosservanza delle misure sanitarie, di falsificazione di documenti e irregolarità nell’uso del denaro pubblico.
Tali vicende motiverebbero la rinnovata fiducia che molti brasiliani sono pronti ad accordare per la terza volta a Lula. Il leader del Partito dei Lavoratori, ex sindacalista, aveva dovuto abbandonare la corsa alla presidenza del 2018 in quanto coinvolto in un processo per corruzione che lo aveva condannato, nel 2017, a 10 anni di carcere.
Nel marzo di quest’anno è arrivata tuttavia la sentenza che ha scagionato il 76enne, da qui la nuova candidatura per le votazioni del prossimo ottobre, nelle quali, con il 48% delle intenzioni di voto a favore (contro il 27% dello sfidante Bolsonaro), l’ex presidente sembra avviato a riprendersi quella carica abbandonata nel 2011.
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