Le elezioni politiche del 2018 sono alle porte, ma il 4 marzo e l’esito delle consultazioni è ancora oggi un punto di domanda per esperti nazionali e internazionali. Ne parla Jon Henley in un articolo del Guardian e anche molti quotidiani italiani hanno chiesto a studiosi del settore quale potrebbe essere il quadro post voto. Su una questione sembrano tutti d’accordo: lo spettro dell’astensionismo è quello che fa più paura. Entrando nel dettaglio, l’astensionismo giovanile, come riportato da Pietro Vento al Sole24ore sembra farla da padrone. Per mettere in luce gli aspetti cruciali del voto giovanile nel nostro paese, facciamo il punto della situazione con Dario Tuorto, professore di sociologia all’Università di Bologna, autore di un libro (“L’ attimo fuggente”, Ed. Il Mulino) su questo segmento dell’elettorato.
Rispetto al fenomeno della partecipazione giovanile possiamo dire due cose. La prima è che, guardando il breve periodo , si registra un peggioramento della situazione: l’affluenza dei giovani alle urne sta diminuendo in modo maggiore rispetto alle altre fasce d’età. Se però guardiamo verso una prospettiva più ampia e comparata, mettendo a confronto il dato di oggi e quello di ieri, e soprattutto il dato italiano con quello degli altri paesi, non c’è una vera emergenza giovanile. L’astensionismo in Italia è stato in larga parte un fenomeno che riguardava altre classi d’età, quelle più anziane, ovvero le generazioni formate prima della Repubblica, socializzate sotto il fascismo, dove non esistevano i partiti di massa. È anche vero che questa fascia sta naturalmente diminuendo nell’elettorato. Dal punto vista del semplice ricambio generazionale ci sarà una percentuale sempre più preponderante di persone cresciute negli anni ’60, caratterizzati da una grande affiliazione di partito, che hanno sempre votato molto, mantenendo questa disponibilità a votare nonostante la crisi. In termini relativi quindi la situazione dei giovani va a peggiorare, vista la progressiva mancanza della fascia più anziana ma è difficile avere delle stime esatte in termini d’età perché il fenomeno si studia spesso a livello campionario. Possiamo dire che in termini assoluti non raggiunge la drammaticità raggiunta in altri paesi.
Il dato italiano sulla partecipazione dei giovani adulti sta peggiorando ma in Gran Bretagna ad esempio, fino alle ultime elezioni, la stessa fascia votava con percentuali che hanno raggiunto la metà rispetto a quelle degli adulti. In Italia non è assolutamente così. È vero anche che ci sono stati ultimamente dei fenomeni nuovi che hanno dato nuovi stimoli al voto.
Se si parla di partecipazione generale siamo di fronte a un peggioramento soprattutto in quelle elezioni dette di second’ordine, non le politiche. Il caso clamoroso dell’Emilia Romagna è stato il più rilevante e inatteso. Delineare la disaffezione giovanile come motore del fenomeno secondo me è però difficilmente dimostrabile. In realtà la storia ci dice che le più alte percentuali d’astensionismo riguardano le generazioni precedenti. C’è poi anche l’allontanamento delle fasce centrali dell’elettorato, motivato dalla disaffezione. Il caso dei giovani è diverso, spesso non cominciano nemmeno a votare, non hanno ancora identità politica, non è il problema di una vecchia identificazione ma di non riuscire a costruirla
Sono saltati i canali di socializzazione. Prima all’interno della famiglia si riusciva ad avere una circolazione di notizie ed esperienze. I giovani riflettono il cambiamento del contesto. Lo scetticismo non riguarda loro nello specifico, ma è ovvio che questo incida di più in chi deve cominciare la vita politica. Se prima in famiglia avevo l’esempio dei miei genitori o fratelli che andavano a votare, adesso questo c’è meno e se ne parla anche meno. Inoltre, i partiti non sono più canali di formazione della politica: adesso c’è la rete. I nuovi partiti arginano questo fenomeno di disaffezione ma non possono replicare le dinamiche e le strategie del passato. Si spiega così anche il successo tra i giovani del Movimento 5 Stelle nel 2013.
Diverse analisi che ho curato mostrano come siano quelle fasce giovanili non all’inizio della loro carriera di elettore, i cosiddetti giovani adulti più vicini ai 30 anni, che tendono a votare meno. Questo fa pensare che ci sia una relazione con la condizione socio-economica. La sfiducia però può diventare generalizzata perché non vengono risolti i nodi dei problemi giovanili.
Alcuni nuovi partiti sono sorti e con loro anche nuovi leader. In Gran Bretagna i giovani si sono riattivati in una forma di partecipazione dal basso, con personaggi che vedono più vicini a loro, in mezzo alla gente, che parlano con un linguaggio più semplice nonostante si facciano portatori di tematiche tradizionali, come il conflitto di classe. C’è una caratteristica però che non deve mai mancare: questa spinta verso l’attivismo deve sembrare autentica, non strumentale. I giovani percepiscono l’interesse del mondo adulto a sfruttare le loro istanze solo in campagna elettorale
Non emerge una figura leader di questo tipo, nemmeno per quanto riguarda il Movimento Cinque Stelle. Non lo era Grillo e non lo è sicuramente la leadership attuale. In ogni caso, non credo che sarà questa l’elezione che stabilirà il crollo della partecipazione giovanile. Sarà ancora un’elezione di transizione dove i pentastellati prenderanno probabilmente il grosso del voto giovanile
Sono un po’ saltate le classiche divisioni sinistra/destra su tematiche importanti. Pensiamo alla questione economica. Oggi i giovani che votano PD sono su posizioni molto distanti da quelle pro Stato di decenni fa. Dal punto di vista dei valori invece sono rimasti più tradizionali: chi ha interessi libertari vota centrosinistra, lì il binomio libertario/autoritario regge ancora. In questo spaccato ad esempio il Movimento Cinque Stelle si sposta più a destra. Tutto rimane sulla questione del sentirsi parte di un processo. Anche la questione della legalizzazione delle droghe leggere può al massimo intercettare giovani che voterebbero a sinistra per posizioni più libertarie. La proposta di abolire le tasse universitarie interessa una parte di giovani, quelli precari che si pagano gli studi oppure le famiglie di chi ha figli studenti a carico. Una proposta sull’aumento di borse di studio o incentivi invece potrebbe interessare tutti i giovani, perché va nel senso dell’autonomia, come la continuità del reddito o la spinta e l’aiuto alle imprese giovanili. Su questo terreno potrebbero intercettare più consensi. Bisogna dire che i giovani contano poco perché in Italia sono pochi: quando ci sono pochi soldi si preferiscono altre tipologie di spese.
Certamente. Nel modello scandinavo ad esempio dopo i 18 anni acquisisci dei diritti come cittadino in automatico, non perché sei figlio o membro di un nucleo familiare. Questi vanno dagli incentivi allo studio fino ai sussidi di disoccupazione e sostegni al credito. L’unica politica di questo tipo poteva essere quella del bonus ai diciottenni, ma è rivolta solo a chi ha 18 anni e una tantum, non c’è in questo senso una progettualità sul lungo periodo, rendendola di fatto solo un’opportunità di consumo
Storicamente, dopo la Seconda Repubblica, il voto giovanile si è sempre inserito nelle posizioni più polarizzate, a destra e a sinistra. Oggi esiste la parte di destra ma manca quella più a sinistra, o almeno c’è solo in parte, con la formazione di Grasso. Non siamo però più di fronte alla situazione degli anni ’90 quando la Lega aveva come contraltare Rifondazione Comunista.
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