Era un ragazzo perbene Emanuele Morganti, la vittima dell’omicidio di Alatri: così lo ha definito anche il procuratore capo di Frosinone, Giuseppe De Falco, che dirige le indagini sulla sua morte, avvenuta domenica 26 marzo dopo due giorni di agonia. Emanuele aveva solo 20 anni quando è rimasto vittima di un’assurda violenza, portata avanti da quello che fin da subito è stato definito “il branco”: un gruppo di persone, tra cui suoi coetanei, lo ha accerchiato e pestato a morte davanti al circolo Arci Mirò dove era andato con la fidanzata Ketty Lisi a trascorre un venerdì sera come tanti altri. Emanuele era un ragazzo a posto, senza grilli per la testa nonostante i vent’anni: gli studi superiori, un lavoro da poco confermato, la fidanzata, gli amici e la famiglia. Stava lottando accanto alla madre, sotto chemioterapia, insieme ai fratelli e al padre: un ragazzo sorridente e tranquillo, strappato alla vita da una violenza cieca e assurda.
Emanuele Morganti viene descritto da chi lo conosceva come un normale ragazzo di vent’anni, con la passione per la caccia (ereditata dal padre cacciatore) e la pesca. Come quasi tutti, aveva giocato a calcio, seguendo la passione per il pallone anche con un certo successo, e aveva preso parte alla preparazione del Tecchiena, squadra della frazione di Alatri dove viveva Emanuele e che milita in Promozione.
Si era diplomato all’istituto chimico biologico Pertini, dove si era fidanzato con Ketty, e stava cercando lavoro: dopo uno stage nel reparto spedizioni della Abb Sace di Frosinone, azienda di elettronica industriale, stava per essere confermato.
“Non era il mestiere per cui aveva studiato, la Abb Sace fa elettronica, ma era felice“, ha raccontato il fratello Francesco in un’intervista a Repubblica. Un ragazzo tranquillo, sorridente, che stava iniziando a vivere, con l’unica colpa di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato.