Emma Ruzzon, presidentessa del Consiglio degli Studenti dell’Università di Padova, durante l’inaugurazione dell’801esimo anno accademico dell’Ateneo ha parlato con gli studenti e davanti a loro, ma anche davanti alla ministra dell’Università e della ricerca Anna Maria Bernini e alla rettrice Daniela Mapelli, ha parlato della situazione attuale che vivono gli studenti. E ha fatto luce sui reali problemi che stanno vivendo oggi.
L’università non è una gara. Non è una competizione. Non è una lotta contro gli altri, ma neanche contro sé stessi. L’università dovrebbe essere una scelta, una decisione, ma anche un diritto. Non è un dovere – la scuola dell’obbligo termina molti anni prima – e non deve essere visto come tale. Eppure spesso lo è, ma questo non va bene. Di questo e di molto altro ha parlato Emma Ruzzon.
“Quand’è che studiare è diventato una gara? Da quando formarsi è diventato secondario rispetto al performare?”: questa è la domanda posta da Emma Ruzzon, presidentessa del Consiglio degli Studenti dell’Università di Padova, durante l’inaugurazione dell’801esimo anno accademico dell’Ateneo. Ma questa è una domanda che ci poniamo tutti da un po’.
Siamo tutte persone, prima di essere – oppure essere state – studenti/studentesse. Siamo tutti individui, con dei sogni, dei desideri, delle aspettative. Ognuno può decidere liberamente come, quando e perché tramutarle in fatti, in realtà. Anzi, ognuno dovrebbe poterlo fare, ma non è sempre così, ahinoi.
Il problema è proprio questo: laurearsi in regola sembra essere diventato un obbligo e non è più una scelta. Chi lo fa, è bravo. Chi non lo fa, è un asino, resterà indietro nella gara della vita, non potrà eccellere in nulla e, se anche lo farà, dovrà faticare di più, perché partirà un passo indietro. Un passo indietro, sì, perché partirà con addosso, sulle spalle, con un peso insopportabile: quello del non essere abbastanza, che si riverserà inevitabilmente e inesorabilmente anche sulla ricerca di un impiego e poi magari anche sull’impiego stesso.
Non possiamo pensare che una ragazza, non molto lontana da noi, abbia creduto, a soli vent’anni, che la sua vita fosse un fallimento per colpa dell’università. Non possiamo pensare che un voto, una “performance mancata”, una difficoltà riscontrata nello studio, abbiano fatto credere a una giovane poco più che adolescente che la sua vita non avesse senso, tanto da scegliere di dirle addio, perché probabilmente per lei non c’era più nulla per cui lottare.
Studiare è un diritto, scegliere come farlo, quali tempi seguire, che voti prendere dovrebbe essere un dovere (morale). Ma quello che è sicuro è che lo è – anzi, anche in questo caso dovrebbe esserlo – non mettere pressioni inutili a chi sta cercando di portare a termine un percorso universitario come, quando e perché vuole. “Quando ti laurei? Sei all’ultimo anno, quanti esami ti mancano? Che media hai?”, tutte domande che spesso colpiscono e trafiggono come lame chi le ascolta e si crede non all’altezza dei suoi compagni/colleghi di corso (chiamateli pure come volete) e che le prende solo come un invito a correre, perché rispondere “non so quando mi laureerò, sono fuori corso già da un po’, ho la media del 24” sembra quasi una vergogna più che una semplice risposta.
Lo ha spiegato benissimo la succitata Emma Ruzzon, che ha voluto sottoporre (anche) alla politica qual è il vero dramma che quotidianamente gli studenti si trovano a vivere: studiare è diventata una gara. Il problema è che chi arriva primo non vince nulla, mentre chi arriva ultimo perde tutto, a volte anche la sua vita.
“La corona d’alloro non deve significare l’eccellenza, la competizione sfrenata deve essere simbolo del completamento di un percorso che è personale, di liberazione attraverso il sapere. Abbiamo scelto di mostrarla qui con un fiocco verde, quello del benessere psicologico, per tutte quelle persone che non potranno indossarla, per tutte le persone che sono state o stanno male all’idea di raggiungere questa corona. Stare male non deve essere normale”: queste le sue parole, che sottolineano il binomio università-benessere, che non dovrebbe mai essere tralasciato, messo da parte, posto in secondo piano. La salute – fisica e mentale – dovrebbe essere al primo posto. Punto.
Ma non finisce qui perché, perché, parlando con Vanity Fair, ha anche aggiunto altri tasselli che potrebbero completare il puzzle del fallimento dell’università.
“Le radici sono nel mondo che ci aspetta fuori, il futuro precario che aspetta la nostra generazione, un futuro in cui non vediamo politiche messe in campo contro la precarietà”: queste le parole di Emma Ruzzon. Il problema, però, nasce già dalle famiglie che, prese dalla paura per il futuro, “mettono pressione sui figli, non per malignità, ma perché c’è una forte paura nei confronti del futuro”.
I genitori, però, dovrebbero avere a cuore soprattutto il benessere psicologico dei figli, a prescindere da dove questo derivi. E dovrebbero essere in grado di accettare anche, perché no, che il loro futuro possa essere diverso da quello che avevano immaginato. Perché sì, siamo tutti individui pensanti, ognuno dovrebbe essere libero di decidere cosa fare senza condizionamenti e, soprattutto, senza la paura di deludere la famiglia, che spesso uccide, letteralmente.
Il problema – anzi, uno degli innumerevoli, dovremmo dire – secondo la Ruzzon è questo: scegliere un corso di laurea seguendo le proprie passioni, sentendo però continuamente addosso il peso sociale del dover correre, può essere comunque controproducente, perché spazza via la voglia di fare e lascia solo un enorme pressione, che spesso limita anche le performance.
E a questo si aggiunge la narrazione fatta dai media: leggere titoloni come “X si è laureato in soli tre anni”, “Y ha conseguito cinque lauree in sei anni”, “Z è riuscito a laurearsi prima del tempo con la media del 30 e lode” e farlo passare come un superpotere è sbagliato. Se X, Y e Z, sono riusciti a conseguire risultati “straordinari”, non dovrebbero essere lodati come se avessero salvato il mondo, perché in realtà non lo hanno fatto. Con questo non vogliamo dire che compiere “imprese” non sia degno di nota e non sia da lodare, ma solo che finché il fatto che qualcuno ci sia riuscito diventerà un’occasione per chi invece, per qualunque motivo, non lo ha fatto, di sentirsi inferiore, non sarebbe meglio evitare titoloni sensazionalistici?
Come la Ruzzon ha evidenziato: “Si tratta di casi di eccellenze straordinarie. Non è richiesto che lo straordinario diventi ordinario e racconti come questo sembrano accuse per chi vive percorsi universitari normali. Molto spesso poi casi come questo non vengono contestualizzati: non si sa se queste persone hanno dovuto lavorare, cercare un alloggio, o se sono state malate. Non vedo l’utilità di una notizia come questa, mi sembra però un riflettere la società”. E poi siamo sicuri che X, Y, Z lo abbiano fatto per un loro merito e non grazie a qualche spinta esterna? Siamo sicuri che X, Y, Z lo abbiano fatto perché volevano davvero farlo e non proprio per farsi acclamare, spinti da una voglia – spesso anche malsana – di primeggiare, indotta proprio dalla società odierna? Siamo sicuri che X, Y,Z non abbiano calpestato qualcuno nella loro corsa incessante al primo posto? No, non siamo sicuri di nulla di tutto ciò, quindi nell’incertezza sarebbe meglio tacere.
Come giustamente ha affermato la Ruzzon: “Il merito non tiene conto di due macro fattori: il fatto che tutti gli individui sono diversi e non si possono giudicare con lo stesso parametro e soprattutto le condizioni di partenza, economiche, familiari, ma anche, per fare un esempio, i disturbi dell’apprendimento. Non tutti possono permettersi ripetizioni o di partecipare a corsi extrascolastici. (…) Gli aiuti non sono mai sufficienti. Nella mia Università oltre 2400 sono rimaste escluse dalla borsa di studio di cui avevano diritto. Il percorso verso la laurea di chi deve lavorare è molto più accidentato”. A chi, ad esempio, ha sempre dovuto studiare e lavorare, si è trovato a gestire già a 18/19 anni una casa, e non si è potuto permettere il “lusso” di passare 12 ore sui libri e trovare, a pranzo e a cena, il piatto pronto a tavola gentilmente servito dai genitori, ha dovuto cercare il tempo per lavare, pulire, stirare, è richiesto di eccellere allo stesso modo degli altri, ma perché (domanda retorica)?
C’è poi da aggiungere che anche il Covid ha cambiato in un certo senso le carte in tavola, ma da un lato la didattica a distanza ha anche portato risvolti positivi, perché “studenti lavoratori, disabili, impossibilitati a trasferirsi per ragioni economiche, hanno avuto la possibilità di vivere di più l’Università e ne hanno diritto come gli altri visto che pagano le stesse tasse”. Quindi non diamo la colpa alla pandemia se la situazione attuale è quella che è.
Alla luce di tutto ciò, però, oggi concretamente cosa potremmo fare? Una soluzione potrebbe essere “investire nell’istruzione e nel diritto allo studio”. Del resto, “l’Italia è uno dei paesi in cui, in Europa, l’Università costa di più. Ci sono pochi posti negli studentati: centinaia rispetto alle decine di migliaia di iscritti. Questo lascia spazio al mercato privato con prezzi che diventano inaccessibili. Così l’Università sarebbe realmente accessibile a più larghe fasce di popolazione. Bisognerebbe poi istituire un servizio di assistenza psicologica all’interno dell’Università strutturale e funzionante. Non in tutte le Università ci sono sportelli di assistenza psicologica e in quelle in cui ci sono l’attesa è di mesi”.
Secondo la presidentessa del Consiglio degli Studenti dell’Università di Padova, inoltre, il percorso universitario dovrebbe insegnare agli studenti “l’amore di imparare” e dovrebbe fornire loro “gli strumenti per capire il mondo”. Una cosa poi è certa: “il fine non deve essere superare gli altri o cercare esclusivamente l’eccellenza. Deve essere un percorso in cui le persone imparano che stare male va bene, è un diritto, come è un diritto fermarsi se si sta male ed è un diritto avere strutture di supporto se si sta male”. Anche perché, ammettiamolo, alcune cose che gli studenti imparano durante gli anni trascorsi all’università, le porteranno con loro per tutta la vita. E, se solo tutti loro imparassero che anche stare male va bene alcune volte e che non è uno stigma che va nascosto a tutti i costi dietro un (finto) sorriso, forse ci sarebbero nel mondo anche adulti migliori, più forti, più consapevoli, più umani.
Chiudiamo con la domanda posta alla Ruzzon sui suicidi: questi sono solo la punta dell’iceberg? “Le storie sono tutte diverse, ma i numeri delle domande di assistenza psicologica alle Università sono altissimi. Questo è il vero indicatore”. Insomma, cambiando gli addendi, il risultato non cambia: il problema è l’università. Punto.
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