L’Eni non passa indenne dall’analisi della Corte dei Conti che anzi fa scattare segnali d’allarme per la nuova dirigenza del colosso petrolifero. La relazione sul bilancio 2013 sottolinea come la società non solo non sia cresciuta, ma che sono molti i settori in crisi e che i risultati più positivi sono dovute a operazioni straordinarie, a partire dalle dismissioni. Al vertice dell’azienda del cane a sei zampe c’è ora Claudio Descalzi, uomo di fiducia dell’ex Paolo Scaroni sulla cui amministrazione era già arrivata la bocciatura da parte del Senato. Il cambio al vertice al momento non basta per risanare i conti e per questo i segnali d’allarme non devono essere presi sotto gamba dalla nuova amministrazione.
La Corte dei Conti ha infatti rilevato troppi fattori in cui la gestione precedente ha fallito, sottolineando cause strutturali ed esterne a cui la società non ha saputo rispondere in maniera adeguata.
Si inizia dalla “riduzione dei ricavi nei principali settori”; l’utile del 2013 e della prima parte del 2014 deriva da “plusvalenze connesse a dismissioni (in particolare di quella di Mamba)”, le prospettive di crescita in Europa sono limitate e in più Paesi produttori sono in corso crisi sociali e politiche.
Per questi i magistrati contabili avvertono i nuovi vertici di “tenere nella dovuta considerazione, anche attuando efficaci politiche per la semplificazione e la razionalizzazione dei processi e per uno snellimento della struttura organizzativa atto a determinare significative riduzioni dei costi”.
Si chiede quindi un cambio di marcia da parte di Descalzi in modo da poter rilanciare l’Eni, a partire da tagli e da politiche più efficienti.
L’allarme della Corte dei Conti segue la bocciatura dell’ex a.d. Scaroni giunta lo scorso aprile nella Relazione di accompagnamento alla risoluzione contro la riconferma dei manager oltre i tre mandati della Commissione del Senato. Allora il governo Renzi era alle prese con le nomine dei dirigenti delle principali aziende a partecipazione pubblica e la Commissione di Palazzo Madama aveva passato al setaccio l’operato dei vertici di Eni, Enel, Finmeccanica e Terna. Per Scaroni la bocciatura era stata sonora.
Durante la sua gestione decennale Eni ha registrato in Tsr medio annuo del 4,2%, mentre il reddito globale del settore è del 6,3% (per i francesi della Total il 5,4%, 2,7% per la spagnola Repsol il, l’olandese Shell all’8,6%, l’inglese Bp il 2,4%, le americane Exxon Mobil e Chevron rispettivamente l’8,2% e al 12,4%).
Nella relazione, Scaroni aveva indicato un Tsr cumulato del 61% ma la Commissione aveva sottolineato dati e indici “costruiti a tavolino”. Tra l’altro, il Tsr è dato dai dividendi e dall’andamento delle azioni che, nel periodo, hanno visto un calo medio dell’1,9% annuo.
A livello patrimoniale, Eni ha visto aumentare il debito finanziario al netto della liquidità da 10,5 miliardi del 2005 ai 15,3 del 2013 con rating “di gran lunga migliore tra i grandi gruppi italiani”, anche per via della “rilevante serie di dismissioni che hanno ridotto la base industriale del gruppo”.
Mancati anche gli obiettivi della produzione di barili che Scaroni aveva annunciato di 2 milioni al giorno nel 2011 e che nel 2013 si sono fermati a 1,619 milioni equivalenti, meno dei 1,736 milioni del 2005. Gli obiettivi sono così stati ridotti a un generico aumento del 3% ogni anno, portando a discolpa l’aumento del prezzo da parte dei Paesi produttori: la Commissione ha però ricordato che la gestione Mincato (1998-2005), ha visto una crescita dell’azienda a fronte di “forti aumenti di prezzo”.
Anche sulla gestione del gas e dei rapporti con la Russia l’ex a.d. ha avuto delle mancanze, capendo “con anni di ritardo la rivoluzione dello shale gas”. Il suo costo lavoro poi è aumentato: nel 2013 la remunerazione totale era di 4,5 milioni, salita a 5,6 milioni con la quota annuale del Tsr. Il dato vale 73 volte il costo medio pro capite delle maestranze Eni italiane: in nove anni Scaroni ha accumulato oltre 45 milioni.
Infine, la clausola etica per cui Eni non ha dato notizia delle cause giudiziarie in cui era coinvolto, mentre il Tesoro chiede una fedina penale pulita per i dirigenti pubblici. “Chi abbia patteggiato per tangenti o altri reati simili dovrebbe essere lasciato al settore privato ove ciò non costituisse problema”, si legge nella relazione. “Il fatto che dopo 5 anni il reato oggetto del patteggiamento possa estinguersi ripulisce com’è giusto la fedina penale, ma non cancella la memoria che, tra altre considerazioni, forma la reputazione di un dirigente statale”. Tutti fattori che hanno portato alla bocciatura dell’ex a.d. e che oggi trovano conferme anche nelle perplessità della Corte dei Conti.