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Epatite C: 96mila casi trattati in Italia, l’obiettivo è portare alla luce il sommerso

Grazie alla recente introduzione di nuovi farmaci e terapie per l’epatite C si registra, in pochi anni, un incremento dei casi trattati con successo in Italia. Il registro attivato il 22 dicembre 2014 vede 96-97mila pazienti che stanno seguendo una terapia anti epatite, ma per sconfiggere la diffusione della malattia occorre – dicono gli esperti – far luce sul sommerso, sui casi ‘nascosti’ alla comunità. Perché è importante trattare tutte le persone malate per impedire la circolazione dell’infezione. Nel frattempo i nuovi criteri Aifa hanno ampliato l’accesso ai trattamenti anti epatite, prevedendone la rimborsabilità da parte del SSN. Un dettaglio importante che ha reso finalmente più accessibili questi super-farmaci.

Anche con l’arrivo sul mercato di prodotti di seconda e terza generazione, i prezzi dei medicinali anti epatite sono diminuiti permettendo un’accessibilità maggiore alle terapie basate sulle nuove molecole pangenotipiche e con trattamento breve. Eppure sono ancora tante le persone che non si sottopongono alle cure.

“Le stime sugli italiani con epatite C sono grossolane: ne conosciamo circa 300mila, ma è difficile stimare il sommerso. La forbice può essere molto ampia e arrivare a raddoppiare questi numeri, oppure essere solo di poco superiore, certamente non il milione e mezzo di pazienti che si ipotizzavano per l’Italia qualche anno fa”, spiega Stefano Fagiuoli, direttore Usc gastroenterologia epatologia e trapiantologia, al Dipartimento di medicina specialistica e dei trapianti, presso l’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo.

Nel contrasto alla malattia, l’Italia “ha già fatto un lavoro importante” – dice Fagiuoli – per sconfiggere l’epatite C grazie ai super-farmaci. “In quest’ottica, la recente approvazione da parte dell’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) della rimborsabilità di un nuovo regime pangenotipico della durata di 8 settimane rappresenta un grandissimo passo avanti”, aggiunge Fagiuoli.

“Il nuovo regime pangenotipico, già approvato da Fda ed Ema e in uso da qualche mese in molti Paesi occidentali – aggiunge lo specialista – mette a disposizione una nuova terapia per il trattamento di pazienti con infezione cronica da virus dell’epatite C, non cirrotici e senza trattamento anti-Hcv pregresso, i cosiddetti pazienti naive“. Si tratta di un trattamento orale privo di ribavirina (Maviret, glecaprevir/pibrentasvir di AbbVie) che prevede una sola somministrazione al giorno.

“La nuova frontiera – sottolinea Antonio Craxì, ordinario di Gastroenterologia dell’Università di Palermo – è proprio quella delle terapie brevi, farmaci come la combinazione glecaprevir/pibrentasvir che riescono a essere di grande importanza pratica, per la possibilità di abbreviare le cure a otto settimane e offrire massima efficacia, massima tollerabilità e semplicità di uso”.

Eradicare l’infezione sarà quindi possibile a breve? Risponde Craxì: “In assenza di un vaccino, con farmaci già diventati efficacissimi e tollerabilissimi che si avviano a diventare anche accessibili economicamente, si può pensare a un futuro in cui l’epatite C sarà contenuta in piccolissime nicchie”.

Precisa Antonio Gasbarrini, ordinario di Gastroenterologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma: “E’ impossibile avere un futuro senza una malattia infettiva in assenza di un vaccino. Ad oggi abbiamo un vaccino per l’epatite B, ma non contro l’Hcv. Quello che possiamo ipotizzare è un futuro in cui tutti i pazienti saranno curati dall’epatite C”.

Al momento i risultati sono comunque da tenere in evidenza: “La terza generazione di anti-epatite non è tossica ed è ben tollerata. Fino a marzo 2017 l’accesso agli anti-epatite C era limitato e riservato a pazienti con forme più avanzate, e questo perché i medicinali avevano prezzi che, per un trattamento, arrivavano a quasi 100mila euro. Ora sono crollati a 4-5mila euro a trattamento”. Questo vuol dire che – precisa Gasbarrini – grazie ai nuovi criteri Aifa, “riusciremo a trattare tutti i pazienti in carico al servizio sanitario nazionale“.

Conclude Fagiuoli arrivando al nodo della questione: per immaginare un futuro senza l’epatite: “serve un farmaco efficace, e ne abbiamo una serie; serve trattare tutte le persone malate, e lo stiamo facendo, ma per eliminare davvero il problema occorre scovare chi l’infezione ce l’ha e tende a mantenerla nella comunità. Bisogna uscire dall’ospedale, interagire con carceri, centri di recupero per tossicodipendenti, strutture per il trattamento delle malattie sessualmente trasmesse. Solo individuando ogni singolo caso, lo si può trattare” con efficacia.

In collaborazione con AdnKronos

Kati Irrente

Giornalista per vocazione, scrivo per il web dal 2008. Mi occupo di cronaca italiana ed estera, politica e costume. Naturopata appassionata del vivere green e della buona cucina, divido il tempo libero tra musica, cinema e fumetti d'autore.

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