Erri De Luca è stato assolto perché il fatto non sussiste. Lo scrittore dunque non ha istigato nessuno a delinquere quando ha detto che la Torino-Lione andava sabotata; ha solo esercitato il suo diritto alla libertà di parola, aggiungiamo noi. Lo ha fatto con un discorso che è una breve lezione di civiltà: ha citato grandi personaggi che hanno fatto della non violenza la loro unica arma, come Gandhi e Mandela, ma soprattutto ha usato la forza delle parole per difendere la Costituzione e quell’articolo 21 che garantisce a tutti noi di esprimere opinioni e pensieri. Lo ha fatto in un’Aula di tribunale, dove vige solo la legge, unico collante di uno stato che vuol dirsi democratico, senza se e senza ma.
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De Luca ha voluto esprimere ancora una volta la sua contrarietà a un progetto che reputa pericoloso per la “salute, del suolo, dell’aria, dell’acqua di una comunità minacciata”; ha saputo andare dritto al cuore della questione, usando come scudi l’intelligenza e la coscienza civile.
Ha ricordato che l’Italia ha vissuto i momenti più bui della sua storia quando vigeva il fascismo e la censura era all’ordine del giorno. La Costituzione, di cui politici e pseudo-intellettuali si beano ogni volta a loro uso e consumo, ha permesso a tutti di superare con spirito democratico quel baratro.
L’articolo 21 garantisce a ogni cittadino italiano di “manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” ed è quello che ha fatto De Luca: ha espresso il suo parere contrario alla Tav, senza “istigare” a commettere reati.
Tutto nasce da quella parola, “sabotare”, che lo scrittore ha rivendicato come scelta consapevole, perché “nobile e democratica”. “Sono disposto a subire condanna penale per il suo impiego, ma non a farmi censurare o ridurre la lingua italiana”, ha dichiarato davanti ai giudici, spiegando di difendere “l’uso legittimo del verbo sabotare nel suo significato più efficace e ampio”.
Questo termine affonda le radici nella storia della civiltà occidentale, quando gli operai tessili di Francia durante la Rivoluzione Industriale usarono gli zoccoli (i sabot) per rompere i macchinari che li inchiodavano 18 ore al giorno. Da allora, è stato una costante nella storia del sindacato, passando dagli zoccoli agli scioperi che altro non sono che un “sabotaggio” del lavoro. Usarlo in quel contesto significava richiamare la lotta impari della gente comune di fronte a un’opera colossale su cui non si ha il controllo. È la forza della parola che ha spaventato?
Soprattutto, De Luca ha portato la Costituzione nella realtà, non ha lasciato che marcisse negli scaffali. Si è difeso perché scrittore e quindi “parte lesa di ogni volontà di censura”; lo avrebbe fatto se non fosse stato lui “lo scrittore incriminato per istigazione”, perché il principio è più grande del singolo uomo.
“Ciò che è costituzionale credo che si decida e si difenda in posti pubblici come questo, come anche in un commissariato, in un’aula scolastica, in una prigione, in un ospedale, su un posto di lavoro, alle frontiere attraversate dai richiedenti asilo. Ciò che è costituzionale si misura al pianoterra della società”: ecco la vera difesa della libertà di parola. Non una dissertazione filosofica, ma la concretezza della legge italiana basata sulla Carta Costituzionale, la stessa che permette a tutti noi di dire “Je suis Charlie” (per poi pensare “in fondo se lo sono meritati”). Siamo noi gli ipocriti che invochiamo la libertà di parola solo quando siamo favorevoli, mentre, se siamo contrari, ci aggiungiamo un “ma” di troppo.
E allora il reato di apologia di fascismo, dicono in molti? A quello ci pensa la legge italiana, così come all’istigazione all’odio razziale, la calunnia, la diffamazione e altri reati legati all’uso della parola. Allo scrittore napoletano veniva contestata un’opinione, forte, complessa, contraria, ma un’idea. “La mia parola contraria sussiste e aspetto di sapere se costituisce reato”; per nostra fortuna, in Italia non lo è più.
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