Mina Welby e Marco Cappato sono stati assolti dai giudici della Corte d’Assise di Massa (Massa Carrara) dall’accusa di aiuto al suicidio nei confronti di Davide Trentini, il barista 53enne malato di Sla che grazie all’ssociazione Coscioni era riuscito a raggiungere un clinica svizzera dov’è morto il 13 luglio 2017. I due imputati sono stati assolti perché il fatto non sussiste, e perché il fatto non costituisce reato. L’Italia ancora non ha una legge sull’eutanasia, e la battaglia di civiltà di Welby e Cappato continua.
“Io sono molto molto felice perché oggi (Piergiorgio Welby, ndr) ha raggiunto quello che lui voleva: una sentenza” sull’eutanasia “e adesso dobbiamo lavorare per ottenere la legge”. Sono state le prime parole di Mina Welby, vedova dell’attivista Piegiorgio Welby, assolta insieme a Marco Cappato dall’accusa di aiuto al suicidio e istigazione ai suicidio nei confronti di Davide Trentini, che nel 2017 ha scelto di morire in una clinica svizzera.
“Io non smetterò di lottare – ha aggiunto Mina Welby dopo al lettura del verdetto – in non smetterò di essere disobbediente e sarò sempre pronta ad accompagnare tutte quelle persone che si rivolgono a noi ad individuare al loro via, la loro strada. La cosa più importante – ha concluso Mina Welby – è andare avanti, aiutare ed essere presenti per tutti”.
Quando il tribunale di Massa Carrara ha pronunciato la sentenza “ci siamo abbracciati con Mina Welby, con tutti gli avvocati e con mia moglie”. Così Marco Cappato in un’intervista a ‘La Stampa’. “Quel che conta – sottolinea – è sapere di aver compiuto un altro passo fondamentale sulla strada per riconoscere il diritto al suicidio assistito in Italia“.
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Secondo il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, “diventa ancor più grave e insopportabile il ritardo del Parlamento nel dare all’Italia una legge su questo tema”. Si aspettava l’assoluzione? “Non era affatto scontata. Al contrario di quanto accaduto a Milano per il caso di dj Fabo, qui il pubblico ministero aveva chiesto una condanna. Quel che non era scontato era l’applicazione di uno dei quattro criteri, stabiliti un anno fa dalla Corte costituzionale, necessari perché non sia punibile l’accesso al suicidio assistito: quello che prevede che il malato sia tenuto in vita da un trattamento di sostegno vitale”, aggiunge Cappato.
Alla domanda se ha mai temuto di essere andato oltre i limiti, Cappato è sicuro: “No, rifarei tutto. E continueremo la nostra azione di disobbedienza civile, anche se andare avanti aspettando le sentenze è un rischio. Per avere una garanzia preventiva serve una legge che definisca in modo chiaro quali sono i doveri dello stato nell’aiuto al suicidio. Non si può vedere ogni volta se c’è un’assoluzione o meno”.
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Sull’eutanasia “La nostra proposta di legge di iniziativa popolare – sottolinea – è di 7 anni fa. Sette anni senza mai una discussione. Ci sono state due sollecitazioni formali della Consulta, ma la necessità di una legge non è superata dalle sentenze. Mancano delle regole, una procedura per chiarire e garantire dei diritti“.
E conclude: “La nostra convinzione è che il diritto ad essere aiutati a morire non debba dipendere dalla tecnica con cui una persona è tenuta in vita, ma debba dipendere dalla sua volontà e dalla sua condizione di malattia e sofferenza. Chiediamo quindi che sia consentito l’aiuto al suicidio anche a chi ha malattie irreversibili, con sofferenze insopportabili, che però non sia dipendente da terapie salvavita. Perché se uno fa la dialisi la può sospendere e ha così diritto a morire, ma se si è malati terminali di cancro non può?”.
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