L’eutanasia in Italia è un argomento che è stato ampiamente dibattuto nel corso del tempo. Negli ultimi anni, soprattutto, ci sono stati diversi avvenimenti che hanno scosso l’opinione pubblica, eppure le leggi parlano chiaro: qui ad oggi ancora non è consentita, a differenza del suicidio assistito.
Negli ultimi anni ci sono stati diversi casi di eutanasia in Italia che hanno spaccato in due l’opinione pubblica: da Eluana Englaro a Fabio Ridolfi, passando per Dj Fabo. Ma, a prescindere da ciò che pensano i singoli cittadini, ci sono delle apposite leggi che devono essere considerate per capire cosa è concesso e cosa non è concesso fare in casa nostra ad oggi.
Per poter comprendere la situazione attuale sull’eutanasia in Italia oggi, dobbiamo innanzitutto comprenderne il significato profondo e capire la differenza con il suicidio assistito, altra pratica tristemente diffusa, che il nostro ordinamento però inquadra in un modo completamente diverso.
Con il termine eutanasia, derivante dal greco eu – thanatos, cioè “buona morte”, si identifica l’atto di procurare la morte di qualcuno che ne faccia espressamente richiesta perché le sua condizioni di vita sono divenute assolutamente insopportabili. Per capirci meglio, possiamo prendere in considerazione la definizione che ne dà la Federazione Cure Palliative, per cui è “l’uccisione di un soggetto consenziente in grado di esprimere la volontà di morire”. Questo è un dato da tenere a mente per quello che diremo a brevissimo.
Diverso, infatti, è il suicidio assistito. In questo caso parliamo di sospensione delle cure, tra cui, ad esempio, anche della nutrizione e dell’idratazione artificiale. La differenza in sostanza è che, mentre nel primo caso, il paziente si autosomministra spontaneamente il farmaco che causerà la sua morte, nel secondo rinuncia alle cure che lo tengono in vita. In pratica la differenza sta nel modo in cui una persona “sceglie” di morire, ma l’assunto di base è sempre lo stesso: la volontà di porre fine ad una vita fatta di sofferenze insopportabili.
Dal punto di vista normativo, però, i due casi sono inquadrati in maniera del tutto differente. L’eutanasia costituisce un reato, in quanto è assimilabile all’omicidio volontario. A regolarla sono l’articolo 579 del codice penale (che riguarda proprio appunto l’omicidio del consenziente) l’articolo 580 (che parla invece di istigazione o aiuto al suicidio).
Tradotto: chi aiuta una persona che vuole porre fine alla sua vita a farlo, può essere punito con la reclusione da 6 a 15 anni. Il suicidio assistito, invece, è consentito dalla legge e, anzi, costituisce un diritto inviolabile sulla base dell’articolo 32 della Costituzione e della legge 219/2017.
Stando alla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, però, non sempre si può ricorrere al suicidio assistito, ma ci devono essere delle condizioni. Cioè: il richiedente deve essere perfettamente capace di intendere e di volere, deve essere affetto da una patologia non curabile, vivere in una condizione di sofferenza fisica e mentale intollerabile, e deve essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.
C’è, poi, anche un terzo caso assimilabile comunque all’eutanasia: si tratta della sedazione profonda e continua. Che ha lo scopo, chiaramente, di ridurre il dolore del paziente, rendendolo praticamente incosciente. Possono scegliere questa opzione le persone affette da malattie in stadio avanzato e i cui sintomi sono intrattabili altrimenti.
In Italia, però, verso l’inizio del 2022 – precisamente a febbraio – i giudici della Corte costituzionale riuniti in camera di Consiglio hanno discusso sulla possibilità di ammettere un referendum su questo tema. A proporlo era stata l’Associazione Luca Coscioni, che aveva raccolto ben 1,2 milioni di firme. L’idea era quella di abrogare una parte dell’articolo 579 del codice penale e quindi rendere legale la somministrazione di un farmaco da parte di un medico qualora il paziente avesse voluto porre fine alla sua vita.
Nonostante ciò, alla fine la Corte si è espressa respingendo la proposta, perché se l’eutanasia fosse stata legalizzata “non sarebbe stata preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.
Questo è apparso strano a moltissime persone, perché di fatto era stata proprio la Corte Costituzionale nel 2019, cioè solo tre anni prima, ad avviare un dibattito sul tema, dopo la faccenda di Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni ed esponente dei Radicali. Per capirci di più dobbiamo, però, fare un rewind e tornare al 2017.
Nel febbraio di quell’anno, Cappato si recò in Svizzera insieme Fabiano Antoniani, in arte dj Fabo, per consentirgli di porre fine alla sua vita in una clinica specializzata. Fabiano era cieco e tetraplegico da circa tre anni: nel 2014 aveva avuto un terribile incidente stradale e da lì la sua vita era cambiata tragicamente.
Il problema però sorse quando tornò in Italia: si recò alla procura autonomamente, per raccontare quello che aveva fatto, ma da lì si aprì un dibattito lunghissimo, con annessa procedimento giudiziario, terminato solo un paio di anni dopo proprio con la sentenza della Consulta, che stabiliva, appunto, che “non è punibile, ai sensi dell’articolo 580 del Codice Penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Successivamente, la Corte Costituzionale aveva spinto il Parlamento ad approvare una legge sul tema dell’eutanasia per fugare ogni dubbio e mettere un punto alle troppe questioni aperte da tempo immemore ormai. Eppure alla fine è accaduto ciò: l’11 marzo di quest’anno, la Camera ha approvato un testo in cui sostanzialmente si riprendeva la stessa decisione presa all’epoca della Corte con 253 voti a favore, 117 contrari e una sola astensione. Il disegno di legge poi però è passato al Senato, e lì si è fermato.
Eppure in Italia i casi di persone che richiedono di poter porre fine alla loro vita continuano a esserci eccome.
L’ultimo – in ordine puramente cronologico, si intende – è quello di Adelina (nome di fantasia usato dall’Associazione Luca Coscioni), una donna di 69 anni affetta da un tumore ai polmoni irreversibile, piena di metastasi, che ha scelto di morire, chiedendo aiuto proprio all’associazione.
Anche questa volta per poter morire si è dovuta recare in Svizzera e anche questa volta al suo fianco c’era Marco Cappato, esattamente come accade nel 2017 a dj Fabo. C’è però una differenza sostanziale tra le due vicende: quest’ultimo era tenuto in vita dei macchinari, Adelina, invece, non aveva bisogno di alcun sostegno vitale. Era solita prendere solo farmaci all’occorrenza, anche se ormai la sua malattia non era curabile.
Anche in questo caso, però, esattamente come accadde cinque anni prima, Cappato, tornato in Italia si è autodenunciato. Con una differenza: in questo caso rischia davvero grosso (per via delle differenze tra eutanasia e suicidio assistito). Il 25 settembre la Consulta si è pronunciata sul giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice Penale (inerente cioè a istigazione e aiuto al suicidio).
Abbiamo già ampiamente anticipato quali sono i requisiti necessari perché si parli di suicidio assistito. In questo caso specifico il problema è che la donna non era tenuta in vita dalle macchine. Questo punto aveva assolto Cappato dopo la morte di dj Fabo, ma ovviamente in questo caso non vale affatto. Oggi, quindi, rischia fino a 12 anni di carcere.
Sono di enorme valore morale le ultime parole di Adelina (che poi all’anagrafe si chiamava Elena), poco prima di morire: “Sono sempre stata convinta che ogni persona debba decidere sulla propria vita e debba farlo anche sulla propria fine, senza costrizioni, senza imposizioni, liberamente, e credo di averlo fatto, dopo averci pensato parecchio, mettendo anche in atto convinzioni che avevo anche prima della malattia. Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia e la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e, quindi, ho dovuto venire qui da sola”.
Altrettanto emblematico il caso di Fabio Ridolfi, un 46enne originario di Fermignano (Pesaro-Urbino), morto il 16 giugno 2022. Lui, immobilizzato da 18 anni a letto a causa di una tetraparesi, ha scelto la revoca del consenso alla nutrizione e all’idratazione artificiali. Questo per lui è stato un atto estremo in tutti i sensi: avrebbe voluto ricorrere all’eutanasia, ma questa possibilità gli è stata negata, dal momento che l’approvazione non è mai arrivata.
Fabio ha quindi anche provato ad affidarsi anche all’Associazione Luca Coscioni, secondo cui nei casi come il suo l’accesso al suicidio assistito è possibile eccome. Peccato però che alla fine nulla è cambiato. Così il 19 maggio ha optato per un “piano b”: la sedazione profonda e continua.
Stando a quanto dichiarato da Filomena Gallo e Marco Cappato ci sono stati “una serie di incredibili ritardi e di boicottaggi da parte del Servizio sanitario” a portarlo a questa soluzione, dal momento che da circa quattro mesi stava aspettando di poter ricorrere al suicidio assistito. Neanche il fatto che lui rientrasse nelle condizioni previste dalla Corte costituzionale gli ha reso possibile farlo.
Ovviamente questi sono solo alcuni dei casi che si sono verificati negli ultimi anni in Italia, ma la lista è davvero lunghissima.
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