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Cronaca

Eutanasia, una donna di 89 anni è dovuta arrivare in Svizzera per morire: aveva una patologia incurabile

L’eutanasia è uno dei temi più delicati, controversi e complessi che esiste in Italia. Sì, perché negli anni abbiamo dovuto sentire di troppe persone che, per decidere quando e come morire, hanno dovuto lasciare il loro Paese natale, la loro famiglia, i propri affetti. E troppo spesso qualcuno ha provato a fare qualcosa ma senza risultati. E così, mentre molti ne parlano, ma il governo pare fermo sulla sua posizione, a un’altra donna è toccata la stessa sorte che era toccata a tantissime altre persone in passato: malata di Parkinson, è dovuta arrivare in Svizzera per poter dire addio alla sua vita piena di sofferenza.

Eutanasia – Nanopress.it

Una donna di 89 anni originaria di Bologna è dovuta arrivare fino in Svizzera per poter decidere come morire. Era malata di Parkinson dal 2012 (anche se la diagnosi definitiva era arrivata nel 2015) ed era arrivata al punto di essere cosciente, ma di non essere autonoma. La donna è però solo l’ennesima persona a cui tocca la stessa sorte: perché nessuno decide di cambiare le cose in Italia?

Eutanasia in Italia: ecco a che punto siamo

“Ora sono vigile in un corpo diventato gabbia senza spazio né speranza. Anzi stringe, ora dopo ora, inesorabile la morsa”: queste le parole di Paola R., 89enne bolognese affetta “un parkinsonismo irreversibile e feroce (taupatia)”, arrivata a uno stadio tale che non le consente più di vivere. Ma queste probabilmente sono state le parole – sicuramente non le stesse, ma molto simili – di Adelina, Fabio Ridolfi e tutte le altre persone che hanno dovuto rinunciare a morire nella loro casa, circondati dalle persone care, per via di un sistema che tutela la vita ad ogni costo, anche quando questo è troppo alto da pagare e anche quando chi vive non si può più permettere di pagarlo.

Tutte queste persone hanno tre cose in comune: erano affette da una malattia incurabile, erano affette da una malattia la cui gravità non era tale da farle vivere attaccate a una macchina, ma lo era comunque tanto da impedire ogni cura, hanno dovuto lasciare il loro Paese per poter morire serenamente. Sì, serenamente, perché la morte diventa a volte un sollievo quando vivere diventa troppo doloroso e quello che c’è al di là di questa terra – che ognuno sia libero di credere in quello che desidera ovviamente – diventa un rifugio, un riparo, un luogo sicuro.

Prima di parlare dettagliatamente della storia di Paola R., però, dobbiamo cercare di capire a che punto siamo in Italia sull’eutanasia. Spoiler: siamo rimasti indietro (anche su questo punto).

In primis, dobbiamo fare una distinzione tra eutanasia e suicidio assistito (legalmente le due pratiche sono inquadrate in modo del tutto differente). Nel primo caso, possiamo prendere in prestito la definizione fornitaci da Wikipedia, secondo cui l’eutanasia (parola derivante dal greco eu – thanatos, cioè “buona morte”), “è il procurare intenzionalmente e nel suo interesse la morte di un individuo la cui qualità della vita sia permanentemente compromessa da una malattia, menomazione o condizione psichica”.

 Questa si divide a sua volta in eutanasia attiva – di cui si parla quando il medico somministra al paziente che lo richiede espressamente un farmaco letale – e passiva – che avviene cioè quando semplicemente il medico interrompe le cure – ma dal punto di vista giuridico cambia poco.

Diverso, infatti, è il suicidio assistito. In questo caso è il paziente ad autosomministrarsi un farmaco fornitogli comunque da una équipe medica. La differenza sostanziale sta nel fatto che, mentre nel primo caso non è la persona che lo richiede ad assumere il farmaco, ma è un medico a somministrargliela, nel secondo agisce in modo completamente autonomo.

Dal punto di vista normativo le due pratiche sono inquadrate in maniera del tutto differente. L’eutanasia costituisce un reato: è in pratica assimilabile all’omicidio volontario. A regolarla sono l’articolo 579 del codice penale (“Omicidio del consenziente: chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’articolo 61”) l’articolo 580 (“Istigazione o aiuto al suicidio: chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni”).

Il suicidio assistito, invece, è consentito dalla legge e, anzi, costituisce un diritto inviolabile sulla base dell’articolo 32 della Costituzione e della legge 219/2017. Dobbiamo specificare, però, che questo non è un discorso universale perché, stando alla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, per poter ricorrere a questa pratica è necessario che coesistano diverse condizioni. Il richiedente cioè deve: essere perfettamente capace di intendere e di volere, essere affetto da una patologia non curabile, vivere in una condizione di sofferenza fisica e mentale intollerabile ed essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale.

Le ultime notizie che abbiamo al riguardo sono queste: tempo fa la Corte Costituzionale aveva spinto il Parlamento ad approvare una legge sul tema dell’eutanasia. Alla fine a marzo del 2022 la Camera ha approvato un disegno di legge su questo tema – con cui in sostanza la morte volontaria medicalmente assistita veniva equiparata alla morte naturale – con 253 voti a favore, 117 contrari e una sola astensione, ma quando il testo è arrivato in Senato si è fermato.

Eutanasia – Nanopress.it

In ogni caso, la definizione di suicidio assistito è da tenere perfettamente a mente per comprendere di più sul caso di Paola R., che per morire è dovuta arrivare in Svizzera, partendo da Bologna, dove ha lasciato la sua casa, i suoi affetti e il rimpianto di non aver potuto scegliere come dire addio alla vita.

Il caso di Paola R.

Paola R., qualche tempo fa si era rivolta all’Associazione Luca Coscioni, esausta e stremata dalla malattia. Era il 2012 – quindi, a conti fatti, la donna aveva circa 78 anni – quando iniziò ad avvertire un malessere. Nel 2015 la diagnosi: Parkinson. Da lì, il declino lento, graduale, come una goccia che cade dal lavandino ogni giorno, ma inesorabile, come l’allagamento che ad un certo punto, senza una via per arginarla, ne consegue.

Le malattie degenerative sono così: iniziano, proseguono incontrastate, arrecano danni ingentissimi e restano lì finché chi ne è affetto non lascia questa vita. Non sono loro ad andarsene a un certo punto, è la vittima (perché di vittime parliamo) a farlo. Eppure, queste ultime non sono libere di scegliere neanche come andarsene. Sarebbe bello poter dare alla propria morte la stessa dignità che ha avuto la propria vita, poter decidere liberamente, quando la malattia diventa troppo pesante da sopportare, quando dire basta. Sarebbe bello, ma non lo è.

E così Paola, accompagnata dalle due attiviste di Eutanasia Legale, Felicetta Maltese e Virginia Fiume, si è recata in Svizzera e qui, dopo le visite di verifica delle sue condizioni, atte ad accertare le sue condizioni di salute e, soprattutto, la sua volontà di morire, si è autosomministrata la dose di farmaco eutanasico.

Adesso la situazione è questa: le due attiviste, che appena rientrate in Italia, si dovranno recare presso la caserma dei Carabinieri Sezione Polizia Giudiziaria, a Bologna, per autodenunciarsi e rischiano da 5 a 12 anni di carcere. Sì, proprio così. La loro scelta di aiutare una donna di 89 anni, che da anni lottava contro la malattia, ma che non aveva armi per vincere, le potrà condurre alla reclusione. Loro, che hanno scelto la libertà, dovranno adesso rinunciarvi.

“Non sono autonoma in nulla, tranne che nel pensiero”: queste parole di Paola avrebbero dovuto far riflettere. Essere coscienti ogni giorno della propria condizione fisica irreversibile, sapere quotidianamente di non avere alcuna speranza di poter stare bene, svegliarsi ogni mattina, vigili, ma essere impossibilitati a svolgere anche le azioni più banali, quelle che potrebbe svolgere autonomamente anche un bambino, questo non è vivere. Può essere al massimo sopravvivere, ma nessuno dovrebbe arrivare a questo. Almeno, chi non vuole versare in queste condizioni, dovrebbe poter scegliere di non farlo. Punto.

Eppure nel caso di Paola, lei non ha potuto scegliere in alcun modo, perché non era in possesso di uno dei succitati requisiti per ricorrere al suicidio assistito. L’89enne, in pratica, era perfettamente capace di intendere e di volere, era affetta da una patologia non curabile, viveva in una condizione di sofferenza fisica e mentale intollerabile, ma non era tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. E quest’ultimo punto ha fatto davvero la differenza.

La stessa cosa era accaduta, solo sei mesi fa ad esempio a Elena, una donna di 69 anni affetta da un tumore ai polmoni irreversibile, che le era stato diagnosticato poco più di un anno prima, ma che era sempre stato ritenuto incurabile. Anche lei si era dovuta recare in Svizzera, insieme a Marco Cappato, esattamente come era accaduto nel 2017 a dj Fabo. Solo pochi mesi dopo la stessa sorte era toccata anche a Massimiliano, 44enne toscano affetto da circa sei anni da sclerosi multipla, accompagnato da Felicetta Maltese, iscritta all’associazione Luca Coscioni e attivista della campagna Eutanasia Legale e da Chiara Lalli, giornalista e bioeticista. Emblematiche le sue parole prima di partire: “Finalmente ho raggiunto il mio sogno. Peccato che non l’ho raggiunto in Italia, ma mi tocca andare all’estero. (…) Perché non posso farlo qui in Italia? A casa mia, anche in un ospedale, con i parenti, gli amici. (…) No, devo andarmene in Svizzera. Non mi sembra una cosa logica questa. Sono costretto ad andarmene via, per andarmene via”. 

Ebbene sì, vi lasciamo così: chi vuole morire in pace in Italia può scegliere di farlo, ma andando via e arrivando in un luogo lontano da casa, dagli affetti, dalla famiglia. Chi non ce la fa più a combattere contro malattie incurabili è costretto ad andarsene via per andarsene via. E questa è una dura realtà.

Anna Gaia Cavallo

Mi chiamo Anna Gaia Cavallo, ho 30 anni, sono nata a Salerno e lì ho vissuto fino ai miei 18 anni. Poi il viaggio verso Siena per l'università, la laurea in economia e gestione d'impresa e poi il ritorno nella mia città natale. Qui, dopo un anno di lavoro nel settore economico, ho capito che non era questa la strada giusta per me e ho deciso di seguire quella che era sempre stata la mia più grande passione fin da piccola: la scrittura. A quel punto ho lasciato tutto quello che avevo costruito nei sei anni precedenti e ho intrapreso un altro percorso, quello che mi ha portato a diventare giornalista. Iscritta all'albo dei pubblicisti della Campania dal 2019, dopo aver attraversato diversi mondi, sono approdata sul pianeta Nanopress nel 2022 come editor e qui amo occuparmi di cronaca e attualità, ma quando mi capita di scrivere di musica raggiungo il massimo del piacere.

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