Negli ultimi mesi, in Italia è tornato in prima pagina il dramma delle fabbriche lager cinesi, dopo le recenti stragi di Prato e Firenze, tra capannoni in fiamme e imprenditori cinesi senza scrupoli. La Toscana, al pari della provincia di Napoli, sembra essere diventata la base operativa di queste aziende che non rispettano le regole sul lavoro e ‘schiavizzano’ immigrati spesso irregolari. I controlli sono pochi e scadenti anche se c’è in gioco molto più che il semplice tema della sicurezza sul lavoro: queste aziende costituiscono un enigma per la normativa, per gli addetti al controllo e per tutto il sistema economico dello stivale.
L’incidente avvenuto in un’azienda cinese di abbigliamento di Prato ha riportato in prima pagina il problema ma, quando succedono tragedie del genere, nessuno può dirsi davvero sorpreso. Le condizioni in cui sono costretti a vivere e lavorare decine, centinaia di operai cinesi, spesso anche bambini, sono note a tutti, a volte addirittura sotto gli occhi delle autorità che fingono di non vedere. L’ingenuità di chi parla di fatalità del caso è tanto più inaccettabile in un Paese come l’Italia, in cui esiste un compendio legislativo sulle regole aziendali spesso fin troppo fiscale. Eppure le aziende in mano ai cinesi quasi sempre eludono l’ABC della sicurezza senza che nessuno intervenga. Finché non ci scappa il morto. Che prenda fuoco una fabbrica in Pakistan o in Bangladesh è fatto orribile (ma secondo alcuni prevedibile vista la totale assenza di controlli e la corruzione del sistema), quando però accade in Italia allora dobbiamo dichiararlo inaccettabile.
Perché nessuno interviene? Di chi è la colpa di questi tragici avvenimenti? Troppo facile far ricadere la colpa sui ‘caporali’ che gestiscono le aziende come fossero dei campi di progionia, dove non esistono pause e si lavora per 1 euro all’ora (o 40 centesimo ad abito, come nel caso di Prato). Certo, loro sono l’elemento più evidente della catena della colpa, ma a guardare bene ci sono anche altri soggetti da additare: innanzitutto i proprietari dell’azienda stessa (cinesi ma non sempre) e i marchi che affidano a tali aziende le loro commesse; poi la politica (locale e non), i sindacati e le forze dell’ordine che spesso si girano dall’altra parte facendo finta di non vedere perché è più comodo; infine i consumatori, perché acquistano determinati prodotti ben sapendo che provengono da aziende che sfruttano i lavoratori e che non garantiscono alcun diritto (e spesso non pagano neanche le tasse). Non serve andare troppo lontano, quasi tutte le marche di uso comune vengono da mani sporche del sudore degli schiavi moderni.
Dietro le aziende cinesi in Italia c’è spesso un giro poco chiaro di soldi, alimentato dal connubio tra la mafia nostrana e quella cinese, che garantisce un afflusso continuo di manodopera a basso costo e illegale. Gente costretta a vivere pressata in stanze senza luce né servizi e a lavorare fino a 18-20 ore al giorno per pochi euro. Vi siete mai chiesti davvero perché i prodotti che vengono da queste aziende costino così poco? C’è un genio delle economie di scala dietro oppure semplicemente questo prezzo basso è garantito dall’assenza di regole? E non si sentano esclusi coloro che acquistano prodotti (soprattutto tessili) di marca, perché da un decennio almeno il cartellino ‘made in Italy‘ nasconde manodopera cinese barricata in scantinati fatiscenti. Una vera e propria fiumana di carne da macello pronta per essere sacrificata nella prossima strage low cost.
Il potere che dovrebbe controllare trova più facile fingere di non sapere perché le aziende cinesi, anche quelle fuori da ogni regola, portano comunque soldi in circolo nel sistema economico. La miopia del politico sta nel guardare a breve termine senza ammettere le conseguenze pessime a lungo termine: evasione fiscale, infrazioni del copyright, lavoro nero, nessun contributo, lavoratori illegali. Tutto questo porta il profitto nelle mani di pochi, lasciando tutti gli altri a bocca asciutta. E chi paga per questi poveracci che non possono neanche andare dal medico? Quando tutto va bene (nel senso di quando non vengono fatti sparire) pagano gli italiani, intesi come contribuenti di qualsiasi razza e religione. Chi paga le tasse finanzia la sanità pubblica, che dovrà occuparsi anche dei lavoratori senza alcuna garanzia sanitaria. Soldi che dovrebbero essere spesi dall’azienda e che invece finiscono spesso in mazzette.
Senza contare il contraccolpo sull’economia reale: dicevamo che molte aziende cinesi comunque mettono in moto il mercato, perché producono a basso costo e vendono a prezzi stracciati. Non riuscite a leggere il rovescio della medaglia? Il mercato invaso di prodotti di scarso valore, preferiti comunque dai consumatori con le tasche vuote. Il che mette in crisi le aziende italiane o straniere (che lavorano in Italia) oneste, quelle che trattano i lavoratori come risorsa e non come carne da macello, quelle che pagano le tasse e che sono in regola anche con la sicurezza. Se dei cinesi i governi fingono di non sapere, di questi imprenditori onesti si occupano eccome, tassando le buste paga e portando le imposte d’impresa quasi al 60%. Il modo perfetto per alimentare ulteriormente la concorrenza sleale.
C’è un dato surreale in tutto questo: pare che in Cina molti imprenditori stiano decidendo di esternalizzare in altri luoghi (Taiwan, India o Africa) perché i lavoratori cinesi iniziano a pretendere troppo in termini di sicurezza e stipendio, oltre a essere meno produttivi. Aggiungiamo che l’Europa è uno dei territori di conquista prediletti dalla potenza economica asiatica, l’Italia in primis per le sue eccellenze che fanno gola a molti. Ne viene fuori un quadro tetro. Certo, chiudere le porte agli investitori asiatici sarebbe un suicidio per la nostra economia, ma non è neanche ammissibile che, nel 2013, si debba assistere a scene come quelle di Prato. Se i cinesi vogliono fare affari in Italia, ben vengano, ma c’è bisogno di regole e, soprattutto, c’è bisogno che chi di dovere faccia rispettare queste stesse regole. Distogliere lo sguardo non è più possibile, per il bene dei poveri lavoratori e di tutti noi. Solo così il nostro Paese potrà dirsi davvero civile ed evitare di trasformarsi in colonia.