Quali sono i dati del femminicidio in Italia? Quante donne sono morte per mano delle persone che avrebbero dovuto amarle? Non lo sappiamo. Non lo possiamo sapere perché in Italia, nonostante le richieste pressanti delle associazioni che si battono da anni per un riconoscimento del fenomeno, non esiste un registro ufficiale da consultare. Diciture diverse, parametri che non combaciano e un modo di non riconoscere questi delitti per quello che sono: femminicidi, ovvero essere uccise in quanto donne. “Non c’è la cultura in chi deve intervenire – precisa Anna Pramstrahler, Socia fondatrice della Casa delle donne per non subire violenza Onlus di Bologna, responsabile della ricerca e del monitoraggio sui femminicidi – Sto parlando di polizia, magistrati, forze dell’ordine, pronto soccorso, assistenti sociali, diciamo la rete istituzionale, che è fatta persone, di uomini, poco sensibili e informati sul tema. Chi viene a conoscenza del caso non lo vede come un problema, non lo considera nel giusto modo, perché non ha la giusta formazione. Il fatto è sottovalutato o considerato come una questione privata. Qualsiasi legge, se poi non viene riconosciuta la violenza, non serve. Ad esempio, si litiga in famiglia? Non è un problema, non viene considerata una rilevanza su cui intervenire. Anche i centri anti-violenza non sono presenti ovunque e anche le donne non conoscono o non sanno a chi rivolgersi”.
Una legge esiste ed è la 119 del 2013, la cosiddetta ‘legge contro il femminicidio’, che prevede fondi e soprattutto alcune precise azioni dal punto di vista penale, quindi, dove s’inceppa il meccanismo?: “Il problema è sempre lo stesso, che non vengono applicate, o vengono applicate poco e solo in alcune zone dell’Italia” continua la ricercatrice. Manca la cultura e un osservatorio che ti permetta di prevenire per intervenire in modo davvero efficace. In questo buco di conoscenza, la Casa delle donne di Bologna dal 2005 ha messo in atto un lavoro certosino di collezione dei fatti di cronaca, arrivando a questi dati: 1377 donne uccise dal 2005, di cui l’80% per mano di ex compagni o mariti, ma non sono tutte, come ricorda Anna Pramstrahler: “Attenzione, non sono tutte le donne uccise. Una rapina dove viene uccisa una donna non viene contata. In quei dati ci sono solo le morti per femminicidio, morte perché donne, per le relazioni di intimità (uccise da conoscenti, amici e non necessariamente da fidanzati o mariti), o prostitute. Molti ci dicono che questa analisi è sbagliata, che la parola ‘femminicidio’ non vuole dire niente, che è inventata dalle femministe ‘matte’, un termine di cui non considerano nemmeno la definizione. Per noi invece è importante perché spesso la donna muore perché considerata ancora un oggetto in questa società, non per altri fatti criminali. I carabinieri e le forze dell’ordine raccolgono i dati sulle donne uccise, però sono, secondo me, poco attendibili. Parlano di donne uccise in ambito familiare e il dato è inferiore al nostro perché lo estraggono da quelli criminali, che non considerano la totalità del femminicidio, per esempio non includono le donne legate al fenomeno della prostituzione. I dati sono quindi parziali, in mancanza di un osservatorio nazionale”.
La cronaca riporta ogni giorno un caso nuovo che coinvolge vittime sempre più giovani: Jamira D’Amato, uccisa a coltellate il 7 aprile, Sara Di Pietrantonio, Fabiana Luzzi e Noemi Durini. Sembra che l’età del femminicidio si abbassi sempre di più e che gli autori non siano più solo i mariti gelosi ma anche i ragazzi giovanissimi: “Non penso che a livello statistico si possa dire che l’età si sia abbassata, è sempre stato così, però adesso c’è molta più attenzione mediatica e i casi vengono anche un po’ montati. C’è dietro il sentore dello scandalo, del noir, della sensazione, e si crea un clima di emergenza – racconta la ricercatrice della Casa delle Donne di Bologna – Ma che il femminicidio sia una cosa antica, sempre esistita, è un dato di fatto, noi ne parliamo da dieci anni. Nel 2005, quando abbiamo iniziato con le nostre ricerche, non ne parlava nessuno: non era un concetto, non era un tema sociale. Abbiamo verificato anche che, quando sono donne giovani, soprattutto donne belle, ragazze di famiglie perbene, la stampa ne parla per settimane e mesi, quando invece si tratta di donne meno in vista o di ambienti sociali meno importanti o donne di una certa età, non ne parla nessuno, esce solo un trafiletto sul giornale e finisce lì. Chiaramente, da una parte noi siamo contente che si parli di femminicidio e di violenza alle donne, è importantissimo, però se ne parla anche in termini sbagliati, facendo delle analisi scorrette”.
Cosa stanno facendo le istituzioni per intervenire in modo reale nel fenomeno? A marzo è stata istituita una Commissione Nazionale al Senato di indagine sul femminicidio, la cui presidente è Francesca Puglisi, che ha il compito di fare luce sulla violenza contro le donne in Italia. Lo scopo è quello di analizzare la situazione a tutto campo, monitorando anche l’efficacia della legge 119: “Uno dei punti è chiaramente la creazione di un osservatorio perché se non si studia, non si analizzano in modo approfondito i casi, non si può intervenire. Non è tanto importante per noi dire “invece di 120 sono 130 o 150 donne all’anno” ma sottolineare i meccanismi per evitare che si commettano – prosegue la ricercatrice – pensiamo che sia gravissimo che una donna venga ammazzata dopo aver lanciato degli appelli alle istituzioni pubbliche, chiedendo aiuto, facendo una denuncia, andando dai servizi sociali, al pronto soccorso, perché vuol dire che le istituzioni non hanno capito, non hanno risposto. Spero che con il nuovo Piano Nazionale contro la violenza ci sia anche la creazione dell’osservatorio. L’Istat in Italia ha fatto indagini molto importanti sul fenomeno della diffusione della violenza, e spero che lavorino anche sul femminicidio, non solo ‘contando’, che è importante per avere dati puliti, ma anche agendo sui meccanismi di protezione”.
Uno degli ultimi casi di cronaca che ha confermato la protezione non adeguata delle donne una volta denunciato il compagno violento è quello della giovanissima Noemi Durini, uccisa dal fidanzato dopo che la famiglia aveva portato alla luce alle istituzioni il comportamento del ragazzo della figlia, mostrando i lividi sul corpo della ragazza. L’ultimo post della sedicenne su Facebook recita “non è amore se ti picchia”, una presa di coscienza che non è arrivata in tempo: “Come per tante altre donne che avevano denunciato, alcune anche venti volte, dopo non è successo niente: la persona denunciata non è stato arrestata, o allontanata, perché non ne viene riconosciuta la pericolosità. Una volta il capo della polizia disse “noi non possiamo intervenire su tutti i casi di violenza, sono troppi, non abbiamo le risorse”. Se sono troppi vuol dire che il problema è grave ed occorre intervenire. Il problema è che si sottovaluta il problema, pensano che siano litigi in famiglia, non c’è coscienza e consapevolezza del fenomeno, ritenendolo una questione privata, come è sempre stata” conclude Anna Pramstrahler.
Il problema sembra esistere anche a livello burocratico. La madre di Noemi aveva sporto denuncia nel mese di giugno, e la risposta è arrivata i primi di settembre, quando ormai la ragazza era già scomparsa: “Noi sappiamo bene che le donne, quando sono in fase di separazione, corrono un rischio altissimo, per questo abbiamo le case rifugio. Le donne si nascondono nelle case rifugio, perché al momento della separazione, quando una donna decide di andarsene, scatta la violenza più terribile: l’uomo non vuole accettare che diventi autonoma. Questo non viene capito. Le donne lo sentono – anche Noemi aveva capito che era pericoloso – ma non sempre sanno proteggersi”.
Nonostante ciò si registra un aumento delle donne che si rivolgono ai Centri antiviolenza, soprattutto dove i centri sono più conosciuti e capaci di accogliere. A Bologna più di 700 donne si rivolgono al centro della Casa delle Donne, che esiste da quasi 30 anni. Ci sono alcuni territori che ancora possono contare su piccolissimi centri, poco conosciuti, dove le donne hanno difficoltà di accesso. Il fenomeno del femminicidio spesso è la conseguenza di un lungo processo di stalking da parte dell’ex, e anche qui in realtà esiste una legge: “In questo caso si interviene in modo abbastanza importante, ha portato dei vantaggi, ma occorre fare attenzione. La donna deve comunque sempre dimostrare, deve mantenere le prove. Lo stalking generalmente si protrae per un tempo prolungato: non può essere una telefonata di minaccia, una persecuzione con la macchina, un appostamento sotto la casa o a lavoro. Sono azioni ripetute. Se una donna viene minacciata al cellulare, occorre conservare i messaggi. Se ci sono diversi appostamenti occorre trovare i testimoni perché se succede solo una volta non viene presa sul serio. La denuncia per stalking può avere la sua efficacia, se fatta bene. È molto importante farsi aiutare dai centri antiviolenza affinché la denuncia venga posta in modo corretto, con degli elementi che dimostrino la veridicità e la gravità dei fatti, per avere delle conseguenze più immediate”.
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