Un team di ricercatori della Northwestern Medicine ha scoperto non solo che c’è un nesso tra il fibroma uterino e gli ftalati, delle sostanze chimiche presenti praticamente ovunque, ma anche qual è il meccanismo alla base di questo legame.
Il fibroma uterino è una della patologie più diffuse tra le donne: basti pensare che una su tre ne è affetta, spesso senza neanche saperlo. Cos’è che porta alla sua formazione? Tra le cause, vi sono anche gli ftalati e un team di ricercatori ha tentato di capire perché.
Il fibroma uterino oggi è una patologia diffusissima, molto più di quanto si immagini. Colpisce una donna su tre, anche se spesso chi ne è affetta non lo sa neanche. E questo può essere non poco grave: sebbene sia un tumore benigno, infatti, può portare a delle conseguenze serie, come sanguinamento, aborti spontanei e infertilità.
Se vi dicessimo che a causare questa malattia è quello che ci circonda? Un team di ricercatori della Northwestern Medicine ha dimostrato che c’è un rapporto tra il fibroma uterino e gli ftalati. Pare infatti che questi ultimi siano portatori “insani” di questa patologia. Forse questo nome non dice molto alla maggior parte delle persone a prima vista, ma attenzione: queste sostanze chimiche si trovano davvero ovunque. Sì, perché queste vengono usate per migliorare la flessibilità della plastica e si trovano nei rivestimenti delle auto, negli smalti per unghie, addirittura in alcuni medicinali e nei contenitori alimentari.
C’è da dire che tutti – aziende produttrici comprese – sanno perfettamente quanto questi possano essere nocivi per la salute umana, ma continuano ad usarli per il loro potenziale. Teoricamente a livello europeo dovrebbero esserci delle norme che ne regolano l’utilizzo: è possibile infatti usarli solo se la loro concentrazione è inferiore allo 0,1%. Eppure proprio di recente alcuni palloncini per bambini sono stati ritirati dal mercato proprio perché ne possedevano una percentuale maggiore, dato che dovrebbe farci riflettere. Anche perché alcuni prodotti – come quelli ad uso industriale e agricolo – non sono sottoposti ad alcun divieto.
Il problema principale poi – e cioè quello che conduce alla comparsa del fibroma uterino – non è neanche la loro produzione in sé, ma è la loro dispersione nell’ambiente.
Una precisazione va fatta subito: già in passato altre ricerche avevano acceso una luce sullo stretto rapporto tra gli ftalati e il fibroma uterino, ma questa ha aggiunto un tassello ulteriore, nel senso che ha spiegato anche quali sono i meccanismi alla base di questo legame.
Come ha affermato Serdar Bulun, primario di Ostetricia e ginecologia della Feinberg School of Medicine della Northwestern University e autore dello studio, parlando degli ftalati: “Sono più che semplici inquinanti ambientali e possono causare danni specifici ai tessuti umani”. Su quest’ultimo punto in Italia, come abbiamo anticipato, siamo leggermente più “fortunati”, eppure questo non basta.
Dallo studio, infatti, è emerso che le donne che sono maggiormente esposte ad alcuni ftalati – primo tra tutti il Dehp (dietilesilftalato), che è usato per ammorbidire i dispositivi medici in pvc – sono più predisposte alla formazione di fibromi uterini. Per comprendere il motivo, dobbiamo capire come questo prodotto agisce sul nostro organismo.
Attualmente tra tutti gli ftalati questo è il più comune in assoluto. Come ha affermato lo stesso Bulun: “Sebbene ci sia stata una crescente preoccupazione e alcune restrizioni siano state attuate nei paesi dell’Unione Europea, è ancora ampiamente utilizzato per il confezionamento di prodotti alimentari e sanitari negli Stati Uniti e in tutto il mondo”.
Insomma questo si trova letteralmente ovunque. Eppure può essere estremamente dannoso: quando viene a contatto con il nostro corpo, scatena un percorso ormonale, divenendo in pratica un interferente endocrino. Questo è assolutamente nocivo per le donne, perché è questo sistema che regola la riproduzione, l’immunità e il comportamento, attraverso proprio la produzione di ormoni. Precisamente il Dehp può modificare la funzione delle chinurenine, che si legano ad un recettore chiamato Ahr, che a sua volta funge da “interruttore”, nel senso che ci protegge da reazioni autommunitarie che potrebbero diventare pericolose per l’organismo. Quest’ultimo, però, può anche far sì che le difese non riescano ad agire per contrastare il tumore.
Il Dehp inoltre, durante la gravidanza, potrebbe passare anche al feto, causando quindi problemi non solo alla madre ma anche al bambino. Ecco perché bisognerebbe limitarne ulteriormente l’utilizzo e la diffusione nell’ambiente.
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