È una notizia passata in sordina, poco poco piano piano, quella trapelata dai vertici della Banca Nazionale Svizzera e filtrata dalle agenzie: a distanza di anni – era il 2011 – è stato decretato che il franco avesse una propria fluttuazione, libera ed indipendente rispetto all’euro. In precedenza la Banca elvetica aveva infatti deciso di fissare il cambio tra le monete, rispettivamente di 1,20 franchi per 1 euro. Il franco in un sol battito d’ali ha guadagnato il 25 percento
Ovviamente, all’iniziale shock gli ivestitori hanno risposto duramente, affossando nella sola giornata del 15 gennaio la Piazza di Zurigo, che in poche ore ha subito un tracollo pari ad un passivo di 9 punti percentuali. Chi parla di madornale errore, che mina alla credibilità svizzera, non conosce una realtà ben più organizzata e sistemica.
Il rapporto scricchiola
La moneta unica europea incominciava a manifestare gravi carenze sui mercati internazionali e gli investitori, consci dei rischi reali, emigrarono verso lidi protetti. Un porto-garante della sicurezza economica e finaziaria internazionale si dimostrò la Svizzera, che, grazie al continuo afflusso di capitali, vide aumentare in breve tempo il valore della propria valuta in maniera esponenziale: il franco svizzero fu nel corso di un anno rivalutato di oltre il 40 percento, attestandosi sui mercati come valuta solida ed insostituibile.
Nel marasma generale nella Confederazione contemporaneamente accadeva un qualcosa di paradossale: con la rivalutazione per il meglio della valuta, le aziende esportatrici o i centri turistici – altra grande fonte economica per l’intera economia svizzera – rischiavano di indebolirsi; dunque, successivamente ad un programma finanziario intermedio della Banca Nazionale che prevedeva tagli per il costo del denaro e per gli interessi dovuti dagli investitori, e ancora una fase in cui alla vendita dei franchi si alternava l’acquisto di euro, si optò per una più sicura stabilità col cambio, 1,20 franchi per 1 euro.
Decisione inequivocabile
Le misure di agevolazione col tempo si sono rivelate insufficienti: alla condizione dell’euro in picchiata libera, corrispondevano interventi sempre più esosi da parte dell’istituto centrale elvetico, costretto a stampare miliardi di franchi, per alleggerire ed arginare il crescente divario valutario e fissare il rapporto di cambio. Gli analisti credono che la decisione in parte sia stata presa giocando d’anticipo, in vista dei programmi di “quantitative easing” organizzati da Draghi&Co, che prevedono il progressivo acquisto di titoli di Stato dei paesi che nell’Eurozona sono vessati dalla crisi economica. I programmi di alleggerimento quantitativo scatteranno a partire dal 22 gennaio.
La paura più grande per le banche svizzere, alla base della frattura, riguarderebbe un’ulteriore e ormai conclamata svalutazione dell’euro ed una corsa al cambio, che non avrebbe fatto altro che incrinare uno squarcio sistemico tra la nostra e la loro economia. La storia si sarebbe potuta ripetere, con la riclassificazione del franco nei confronti di un euro in declino.
Capitalismo duro e puro
Ora i qualunquisti del terzo tipo potranno pure accomunare secondo un immaginario giogo di forze l’integralismo religioso, il crollo del prezzo del petrolio e della scissione del franco dal vecchio e desueto rapporto di cambio. Anzi, diciamo pure – così accontentiamo anche i complottisti – che una linea d’ombra potrebbe anche sussistere. Tuttavia, concentriamoci sull’azione degli istituti centrali che nel proprio sforzo non riescono in risultati considerevoli a livello comunitario. Dal 2008 sono riproposte politiche di contenimento più che di vero investimento e finanziamento. Ed è qui ravvisabile il punto di accertata insostenibilità svizzera, che dal canto suo non ne ha proprio voluto sapere. Chi, in questa posizione, si sarebbe comportato diversamente?