Una condanna a morte eseguita in Giappone. Lui aveva ucciso ben 7 persone e la giustizia non è stata meno clemente. Un’esecuzione che è diventata sentenza definitiva anche dopo il processo di appello del 2015.
Tomohiro Kato, questo il nome dell’uomo, è uno dei primi destinatari della legge sulla pena di morte in Giappone.
Quando si pensa che, nei paesi industrializzati e civilizzati, certe forme di giustizia siano state abbandonate da un pezzo, si sbaglia di grosso. Dopo gli Stati Uniti, noti in tutto il mondo per l’applicazione, in più occasioni, della legge sulla pena di morte, dallo scorso dicembre, ad essi, si è affiancato anche il Giappone e, in soli pochi mesi, ha già eseguito 4 condanne.
L’ultima qualche giorno fa, con la condanna di Tomohiro Kato, ex operaio precario di soli 39 anni. Ma andiamo con ordine e ricostruiamo la vicenda.
Kato, nel giugno del 2008, aveva ucciso 7 persone ad Akihabara, nella zona di Tokyo. I suoi omicidi erano arrivati alle cronache anche per il motivo non ben spiegato e per la loro efferatezza.
Lui guidava un camion e, con questo stesso mezzo, ha investito alcuni passanti in pieno giorno. Non contento già del primo massacro che aveva fatto, aveva fermato il veicolo, era sceso e armato di pugnale, con lama a doppio taglio, aveva iniziato ad accoltellare persone a caso in strada, arrivando così ad uccidere le 7 persone che dicevamo e a ferirne altre 10.
Una condanna più che certa ma che ha visto la sua conferma solo sette anni dopo la data del massacro stesso, nel 2015. La sua condanna era stata confermata nel 2012. Poi la speranza della sua difesa che, il processo d’appello del 2015, avrebbe potuto risparmiargli l’estrema condanna. Ed invece no: è stata confermata ed eseguita, però, solo qualche giorno fa.
Ma perché aveva fatto tutto questo? Kato era un lavoratore precario di uno stabilimento di produzione a Tokyo. Poco prima di pensare e progettare la sua strage, aveva saputo che il suo contratto di lavoro era in scadenza proprio nel giugno del 2008. Aveva paura di perdere tutto, anche la casa e, diventare quindi un senza fissa dimora.
Era stato anche ospitato dal suo datore di lavoro per qualche tempo ma, questo, non gli aveva permesso di progettare il massacro. Lo aveva anche confidato su internet ma, evidentemente, qualcuno lo aveva criticato e anche troppo. Questa è stata una delle motivazioni, spiegate anche dallo stesso Kato, al processo, quasi a giustificare e a dare una motivazione “giusta” alla sua strage.
Sta di fatto che la morte di 7 persone ed il ferimento di altre 10 le porterà per sempre sulla sua coscienza. E la giustizia giapponese ha cosi deciso per la sua condanna a morte. Prima di Kato, già altre tre persone, sempre accusate di omicidio, erano state condannate a morte mediante impiccagione.
In entrambi i casi, la condanna è stata pienamente appoggiata e sostenuta anche dall’opinione pubblica del Paese asiatico.
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