Martedì mattina, durante la seduta alla Camera per ottenere la fiducia, Giorgia Meloni ha parlato a lungo delle donne che hanno scritto la storia dell’Italia. Nel pomeriggio, poi, dopo un attacco da parte della deputata del Pd Debora Serracchiani ha spiegato anche il suo punto di vista sul linguaggio inclusivo, specialmente dopo le polemiche per la scelta di utilizzare l’articolo il anziché la davanti a presidente.
Giorgia Meloni ha un pensiero ben preciso sul linguaggio inclusivo e non ha avuto alcuna remora nell’esprimerlo esplicitamente durante il suo discorso alla Camera.
“Ho sentito dire che io vorrei le donne un passo dietro agli uomini. Mi guardi onorevole Serracchiani, le sembra che io stia un passo dietro agli uomini?”: con queste parole rivolte alla capogruppo del Partito Democratico, Giorgia Meloni martedì pomeriggio, durante la seduta alla Camera per ottenere la fiducia, introduceva l’argomento del linguaggio inclusivo.
Il solo fatto che lei sia la prima presidente del Consiglio donna di Italia di sempre, del resto, rende già abbastanza chiara la sua posizione sull’inclusività e sul ruolo della donna nella società, che, come ha affermato la stessa Meloni mentre rispondeva agli attacchi della deputata dem, ha contribuito a rendere di rilievo oggi chi in passato ha “costruito con le assi del suo esempio la scala che oggi consente a me di salire e di rompere il pesante tetto di cristallo che sta sulle nostre teste” .
Proprio per questo motivo le donne italiane “non hanno decisamente nulla da temere con questo governo”, dal momento che saranno guidate da lei che, arrivando da una posizione sfavorita, senza avere amici e parenti influenti, relegata all’angolo della Repubblica, ha deciso che un passo indietro agli uomini non ci sarebbe stata. E anzi, oggi tecnicamente si trova un passo avanti rispetto a tutti loro.
Il suo discorso inoltre è stato anche un’occasione per riflettere sull’uso delle parole, in tutti i sensi. A partire dalla modifica del nome del ministero dell’Istruzione, che oggi si chiama dell’Istruzione e del Merito, dando vita a un dibattito apparentemente infinito, ma che la premier ha voluto chiudere semplicemente dicendo che nella scuola uguaglianza e merito devono andare di pari passo, perché “tutti devono poter arrivare ovunque”. Per arrivare al tema del linguaggio inclusivo, tanto discusso negli ultimi anni.
Del linguaggio inclusivo non si fa altro che parlare da mesi ormai. Cosa si intende esattamente con questo nome? Si fa riferimento a un tipo di linguaggio che possa non escludere nessuno. Questo avviene in sostanza quando si includono tutte le persone, a prescindere dal sesso, dell’orientamento sessuale, dall’identità di genere, dall’etnia e più in generale tenendo conto di tutti i parametri che potrebbero essere considerati discriminatori.
A questo proposito, però, soprattutto quando si parla di genere, la lingua italiana è abbastanza complessa da usare, in quanto è flessiva, quindi declina per genere le parti variabili del discorso. Parliamo insomma di binarismo di genere, che non comprende per natura quindi forme neutre (tranne ovviamente per le parole che restano praticamente uguali sia al maschile, sia al femminile).
Per questo motivo, da tempo immemore ormai, spesso si usa il maschile – definito in questo caso non marcato oppure neutro – per indicare gruppi di persone di cui non si conosce precisamente il genere. Il problema però sorge soprattutto nel linguaggio burocratico-amministrativo: generalmente si usa il maschile sempre, fatta eccezione però per alcuni casi (come ad esempio lo studente, che può diventare facilmente la studentessa).
Vi sono soprattutto professioni, cariche pubbliche, che vengono considerate al maschile a prescindere che si tratti di un uomo oppure di una donna. Questo è assai contestato ultimamente, per vari motivi: riassumendo però possiamo dire che secondo moltissime persone bisognerebbe tenere conto del genere femminile e della percentuale delle persone non binarie, che non si identificano in alcun genere insomma.
Ecco che quindi si è pensato nel linguaggio scritto – ma anche in quello parlato – di servirsi di asterischi e schwa (/ə/). Quest’ultima soprattutto è stata oggetto di tantissime discussioni, ma ormai è diventata praticamente il simbolo dell’inclusività, usato soprattutto dagli attivisti. Non tutti sanno che questa è una vocale presente dalla fine dell’800 nell’Alfabeto Fonetico Internazionale (IPA), cioè l’insieme dei suoni di tutte le lingue. Visivamente appare una e al contrario e deriva dalla parola ebraica shĕvā, che possiamo tradurre come “insignificante”, “nulla”. In pratica ci troviamo davanti una vocale media, che costituisce il suono intermedio tra tutte quelle esistenti e per questo nella lingua italiana è diventata una desinenza finale neutra, che non indica quindi alcun genere preciso. Nel linguaggio parlato come si pronuncia? Semplicemente tenendo le labbra leggermente aperte e la lingua abbassata.
Ovviamente un tema così caldo di questo periodo non poteva non essere discusso anche dalla prima premier donna di sempre in Italia, soprattutto alla luce del suo lungo discorso sulle donne. La domanda è anche questa: bisogna definirla il presidente, oppure la presidente? A dircelo è stata lei stessa: “Su questo abbiamo un’idea diversa. Io non ho mai considerato che la grandezza della libertà delle donne fosse potersi far chiamare “capatrena”. No, io ho pensato che fossero cose più concrete, quelle sulle quali bisognava lavorare e per le quali bisognava battersi. Punti di vista, punti di vista, priorità”.
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