(Anna Politkovskaja, uccisa a Mosca il 7 ottobre 2006.
Foto dell’utente Flickr Blaues Sofa utilizzata senza modifiche secondo licenza)
Morire in nome della libertà di stampa e del diritto di cronaca. Secondo il rapporto della International Federation of Journalists (Ifj) in 25 anni sono morti 2.297 giornalisti e addetti all’informazione. Un numero impressionante che racconta una realtà spesso dimenticata a cui la comunità internazionale dovrà porre rimedio. Il rapporto è stato ottenuto dall’agenzia in vista di un dibattito in programma nella giornata del 1° febbraio al Parlamento inglese proprio sui rischi dei giornalisti nelle zone di guerra. Eppure, scorrendo i dati, i cronisti rischiano più nelle zone di pace che nei Paesi in guerra.
Il rapporto Ifj viene pubblicato dal 1990, anno in cui ci furono 40 vittime tra i giornalisti; dal 2010 però il dato non è mai sceso sotto i 100, raggiungendo il picco di 155 vittime nel 2006. Il 2015, anno della strage alla redazione di Charlie Hebdo a Parigi, conta 112 giornalisti uccisi, ma non è solo l’alto numero delle vittime a preoccupare.
Fiori sul luogo dell’omicidio del giornalista filorusso Oles Buzyna a Kiev
Nonostante gli impegni delle più alte autorità, a partire dall’Onu, negli ultimi 25 anni la situazione è peggiorata, in particolare per una sorta di impunità di cui godono gli assassini di giornalisti: secondo il rapporto, solo un omicidio su dieci ha avuto un’inchiesta. Lo ha confermato il segretario generale dell’IfJ Anthony Bellanger, sollevando un altro tema, quello dei cronisti rapiti e sempre più spesso uccisi senza una sola richiesta di riscatto.
Nella classifica dei Paesi più pericolosi per la stampa negli ultimi 25 anni, l’Iraq si piazza al primo posto con 309 morti, di cui la maggior parte avvenuta dopo l’invasione degli Stati Uniti; seconde le Filippine con 146 vittime, seguite dal Messico, dove la violenza dei narcos non risparmia nessuno, con 120 morti. La situazione a oggi rischia di essere anche peggiore: nel solo inizio 2016 in tutto il mondo si contano già 16 giornalisti uccisi.
Come se non bastasse, il maggior numero di vittime negli ultimi anni, si registra in zone lontane da conflitti, in Paesi dove non ci sono guerre dichiarate ma dove domina criminalità. A dirlo non è solo il rapporto Ifj. Anche il dossier di Reporter senza Frontiere sottolinea questa inversione di tendenza rispetto agli anni passati. Nell’anno da poco concluso sono morti 110 giornalisti e solo in un caso su tre gli omicidi sono avvenuti in zone di guerra. Pensiamo a Parigi e a Charlie Hebdo: i giornalisti sono stati uccisi mentre si trovavano in redazione, nel cuore della città. In totale, 67 cronisti sono stati uccisi mentre svolgevano la loro professione, 43 invece sono morti in circostanza non chiare.
Anche nel 2015 è l’Iraq il Paese più pericoloso, con 11 vittime, seguito da Siria e Yemen (10) e dalla Francia che piange le 8 vittime dell’attentato a Charlie Hebdo; l’India ha contato 9 giornalisti uccisi, mentre Sud Sudan e Messico 8; Filippine e Honduras ne hanno avute 7. Ai morti, ricorda RSF, bisogna aggiungere i 54 giornalisti rapiti e i 154 reporter finiti in prigione solo per aver fatto il proprio lavoro. Il triste primato, in questo caso, spetta alla Cina 23 giornalisti detenuti e l’espulsione di un reporter del settimanale francese Nouvelle Observateur: seguono l’Egitto (22), l’Iraq (18), l’Eritrea (15) e Turchia (9).
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