Oggi si celebra la Giornata Mondiale contro l’AIDS, quindi vale la pena fare un punto della situazione. In Italia pare che siano stati compiuti ormai abbastanza passi avanti, mentre in altri Paesi ci sono ancora tante crepe nel sistema sanitario.
L’AIDS fino a qualche anno fa era visto come un mostro contro cui non c’erano abbastanza armi per combattere e vincere. Oggi sappiamo che non è così. Tenendo conto che c’è una differenza sostanziale che deve essere sempre tenuta a mente tra questo e l’HIV, sappiamo che comunque chi è sieropositivo, se curato adeguatamente, ha un’aspettativa di vita praticamente uguale a chi non è mai entrato a contatto con il virus. Il problema però è proprio questo: non tutti nel mondo hanno accesso alle giuste terapie. Per fortuna pare che questo problema in Italia non ci sia, ma ci sono Paesi in cui è ancora presente.
Oggi, 1 dicembre, si celebra la Giornata Mondiale contro l’AIDS. In una giornata come questa il pensiero non può non andare ai passi avanti che la medicina ha fatto negli ultimi anni in merito. Erano “solo” gli anni ’90 – che per alcuni versi ci sembrano lontanissimi, per altri invece sembrano essere passati davanti ai nostri occhi ieri – quando dire HIV significava dire automaticamente morte certa. Subito la nostra mente torna inevitabilmente a personaggi iconici come Freddie Mercury, la cui vita è stata strappata via proprio dall’infezione, ma dall’anno del suo decesso – era esattamente il ’91 – ad oggi è cambiato praticamente tutto.
Oggi innanzitutto con questa malattia si può convivere: esistono medicinali, terapie, cure che possono rendere possibile a chi è affetto da questa malattia vivere una vita “normalissima”. Oggi infatti la sieropositività può essere controllata, così che non si trasformi mai in AIDS.
E qui una precisazione in merito: HIV e AIDS non sono la stessa cosa, anche se spesso si fa confusione ancora con questi termini. Con il primo si indica il virus che attacca soprattutto un tipo di globuli bianchi, i linfociti CD4, responsabili della risposta immunitaria dell’organismo, e che quindi indebolisce tutto il sistema, rendendo quasi nulla la sua azione protettiva contro altri virus, batteri, ma anche tumori. Questa però è la prima fase dell’infezione, che può, se non tenuta a bada tramite apposite terapie, sfociare nell’AIDS – la sindrome da immunodeficienza acquisita – una malattia causata dalla presenza dell’HIV nel sangue, che potremmo quindi definire uno stadio clinico avanzato dell’infezione. Questa determina un calo significativo delle cellule CD4, tale da rendere all’organismo difficile combattere anche le infezioni più banali.
Come dicevamo, però, oggi rispetto al passato la scienza si è evoluta tanto da far sì che l’HIV possa essere controllato senza arrivare mai ad evolversi in AIDS e da rendere addirittura possibile a chi è sieropositivo raggiungere uno status definito in medicina “successo virologico”, che significa che la carica virale presente nel sangue è talmente bassa da essere non rilevabile. Questo oggi riguarda il 90% circa dei pazienti, dato a dir poco significativo, soprattutto alla luce del fatto che in questo caso il virus non è neanche più trasmissibile.
Non a caso, oggi gli addetti ai lavori sono soliti riassumere questa condizione – che arriva quando grazie ai farmaci la carica virale si attesta a livelli non misurabili per almeno sei mesi di fila – con la sigla U=U Undetectable = Untrasmittable o N=N Non rilevabile=Non trasmissibile.
E c’è di più, perché orami oggi statisticamente chi è sieropositivo ha un’aspettativa di vita praticamente uguale a chi non ha contratto il virus. Fondamentale, però, perché questo avvenga è la diagnosi precoce, unico punto che in Italia sembra ancora vacillare. Si stima, infatti, che dal 2015 ad oggi siano aumentate le diagnosi tardive, ma questo comunque non sembra essere un dato molto preoccupante, perché soprattutto nel Belpaese ci sono stati netti miglioramenti negli ultimi tempi.
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