Dal 2012, da quando è arrivato come procuratore generale a Napoli, Giovanni Colangelo ha messo a segno una serie di colpi molto importanti nella lotta alla camorra. Dal suo ufficio dirige non solo la procura più grande d’Italia ma anche una delle più complessem dove il malaffare riesce a infilarsi in quasi ogni aspetto della vita quotidiana. È per questo che i clan lo volevano morto. Per questo avevano trovato il tritolo, per farlo saltare in aria: una scelta che dice molto della paura che il magistrato instilla nei camorristi solo facendo il suo lavoro e che svela il lato oscuro di una criminalità mai doma, che vorrebbe tornare agli anni Novanta, quando i giudici si ammazzavano con le bombe. Chi è Giovanni Colangelo e perché la camorra lo vuole uccidere?
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Nato a Palo del Colle, in provincia di Bari 69 anni fa, Giovanni Colangelo vanta un curriculum impeccabile, maturato quasi tutto al Sud. Fa il suo ingresso in magistratura nel 1973 come pretore a Chivasso (To) e nel 1977 a Gioia del Colle (Ba). Nel 1989 è prima sostituto procuratore e poi dal 2000 procuratore capo aggiunto a Bari come esperto di criminalità economica, quei reati cioè di stampo finanziario che permettono spesso ai clan criminali di far girare il denaro, con colletti bianchi e professionisti a far da tramite. Nel 1999 è coordinatore nazionale della Dda: qui crea e organizza l’ufficio dei collaboratori di giustizia e si occupa di reati in materia di terrorismo e del coordinamento della cattura dei latitanti. Nel 2008 è procuratore capo a Potenza; nel 2012 viene assegnato alla guida della Procura di Napoli dal plenum del Csm che, dopo mesi di battaglie e scontri, converge su di lui.
Il rigore investigativo, la tenacia, la tempestività nell’azione sono le caratteristiche che, chi lo conosce, ha sempre evidenziato. Ex giocatore di pallavolo, cintura nera di karate, amante della lettura, dell’arte e della pesca, a Napoli Colangelo mette a frutto la lunga esperienza maturata negli anni. Gli arresti eccellenti, la lotta ai Casalesi, le numerose confische di beni e soldi ma anche i reati dei colletti bianchi, la corruzione, il lavoro nero, il legame tra politica e malaffare, l’abusivismo edilizion fino al furto di migliaia di preziosi libri nella Biblioteca dei Girolamini.
Colangelo porta avanti una lotta senza quartiere alla criminalità, da quella organizzata a quella comune e conosce bene i limiti del suo lavoro. La repressione è importante ma non basta ed è per questo che in ogni occasione di intervento pubblico ricorda la necessità di una presenza reale dello Stato attraverso le scuole, gli investimenti sui ragazzi, gli aiuti alle famiglie e l’educazione al rispetto della legalità in ogni aspetto della vita. Forse è per questo che il pm è finito nel mirino della camorra, perché ha capito come poterla sconfiggere per davvero.