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I fatti avvenuti lo scorso 3 maggio durante la finale di Coppa Italia fra Napoli e Fiorentina allo Stadio Olimpico di Roma sono ormai noti a tutti. E, a prescindere dalle polemiche che sono sorte in seguito alla trattativa fra Forze dell’Ordine e tifoseria napoletana per l’inizio della partita, di sicuro quegli scontri hanno dimostrato una volta per tutte come il calcio non sia più vissuto come uno sport e i tifosi non vadano allo stadio per assistere ad una (si spera bella) manifestazione sprotiva.
Lo stadio è diventata una moderna agorà, dove però vigono le regole della violenza e della prevaricazione e non certo quelle delle retorica dell’antica Grecia. Già nel 1993 i 99 Posse ammettevano che allo stadio, appunto, non si va per vedere la partita, ma per “sfogare frustrazioni accumulte in settimana ad obbedire, obbedire ad un potere strumentale al capitale”. Ora no penso che Genny ‘a Carogna o Daniele De Santis, alias Gastone, sappiano cos’è il capitale, ma di sicuro non erano all’Olimpico per godere di una bella disputa sportiva. E, così, il calcio è diventato il moderno “oppio dei popoli” di marxista memoria, perdendo completamente le sue connotazioni sportive.
Ora ogni evento che raccoglie intorno a sé numerose persone e che soprattutto li divide in fazione opposte e contrapposto a seconda del tifo può facilmente subire la stessa degenerazione che ha subito il calcio e per scongiurare questo è necessario non commettere gli stessi errori commessi (probabilmente volontariamente) proprio con il calcio. Se, infatti, allo Stadio mancano ancora i celerini a cavallo che possano sedare e disincentivare facilmente, come è successo in Gran Bretagna dove la situazione non era certamente più tranquilla che qui da noi, i gesti di violenza, è necessario punire in modo esemplare ogni tentativo di mistificare altre manifestazioni sportive prima che sia troppo tardi.
Così se un ciclista professionista decide, mentre si ritrova a gareggiare per il Giro d’Italia a Nocera Inferiore, in provincia di Salerno, di sprecare fiato per urlare alla folla di spettatori “terroni” per il solo gusto di offendere, allora è necessario prendere provvedimenti contro costui che mi risulta difficile definire uno sportivo.
A prescindere dalla pochezza del gesto (che senso ha urlare “terroni” ai proprio spettatori senza che questi abbiano possibilità di replica e soprattutto protetto dalla velocità della bicicletta e dell’organizzazione del Giro?), questo può far nascere quelle storiche rivalità fra opposte fazioni che oggi portano a spararsi fuori dagli stadi. Allora, prima che sia troppo tardi, è necessario che gli organizzatori del Giro d’Italia espellano quest’individuo dalla competizione e lo condannino pubblicamente, per dimostrare che il ciclismo vuole restare uno sport, per non trovarci fra dieci anni a dover assistere ad una scena come quella avvenuta lo scorso 3 maggio all’Olimpico e non doverci trovare ad affrontare il problema della violenza nei velodromi. Altrimenti la colpa di quella violenza non sarà solo degli autori degli scontri, ma anche e soprattutto di chi ha permesso che il ciclismo prendesse questa deriva.
Bisogna sanzionare Valerio Agnoli soprattutto per ricordare che il ciclismo e lo sport in generale devono restare quelli di Fausto Coppi e Gino Bartali in questa foto.
REPLICA:
Per diritto di replica e correttezza di informazione, pubblichiamo la risposta del ciclista che ha ammesso di aver urlato “terroni”. Valerio Agnoli ha spiegato: “Purtroppo si è sentita solo quella parola, ma non volevo offendere nessuno. Ce l’avevo con i miei compagni che mi chiamano ‘Terrun’. Proprio a loro stavo dicendo “mi son terrone”. Non volevo offendere nessuno, sono molto legato al Sud. Soprattutto a Messina, terra del mio compagno Vincenzo (Nibali, ndr).” Resta inteso che ciascuno è libero di credere o meno alla versione di Agnoli…
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