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Ricevo e pubblico un video-appello di Giuseppe Misso, collaboratore di giustizia di cui già nel marzo del 2014 raccolsi una dolorosa testimonianza (GUARDA QUI LA VIDEO-INTERVISTA) di come si fosse «pentito di essersi pentito». Oggi è uscito dal programma di protezione, quel programma che – a suo dire – lo ha «torturato psicologicamente», ma ha paura per se stesso e per i suoi familiari: «Chiedo aiuto alla Procura – ha dichiarato sabato all’Ansa – io e i miei familiari siamo oggetto di aggressioni: ieri sera hanno sparato contro la mia abitazione, stamattina mia sorella è stata schiaffeggiata davanti al figlio di sei anni».
Giuseppe Misso, nipote, omonimo ed erede del capo del clan della Sanità a Napoli, ha infatti lasciato il programma di protezione per non sottostare più ai continui trasferimenti e alla totale assenza di protezione, ma non ha smesso di collaborare con la giustizia, tanto che ancora testimonia ai processi contro la camorra. E’ per questo che chiede di essere capitalizzato e ricostruirsi una vita, così come è previsto nel contratto di collaborazione che lo Stato gli ha fatto firmare (LEGGI QUI COSA PREVEDE IL PROGRAMMA DI PROTEZIONE).
Ma soprattutto Peppe ‘o Chiatto, così com’era chiamato nell’ambiente della criminalità organizzata napoletana, teme per sua sorella che pure era sottoposta a programma di protezione in quanto congiunta di un “infame”, come l’hanno definito chi l’ha aggredita l’altro giorno. Il programma, però, è stato revocato sia a lei che al fratello di vent’anni: in seguito a quest’ultimo è stato riassegnato, ma alla donna, madre di un bambino di sei anni, non più.
Purtroppo Giuseppe Misso non è il primo nè l’unico collaboratore di giustizia a denunciare come oramai la collaborazione sia diventata sempre più problematica e sconveniente. Il rischio è che questo avvantaggi ulteriormente la criminalità organizzata.