Il 19,1% degli italiani che sono andati a votare alle politiche del 25 settembre hanno scelto di affidarsi al Partito democratico. Tra chi l’ha fatto per convinzione, chi l’ha fatto perché un militante, chi, ancora, perché non vedeva alternative, la percentuale dei consensi è stata ben al di sotto delle aspettative, tanto che all’indomani della sconfitta il segretario Enrico Letta ha deciso di convocare la Direzione, e poi un Congresso.
Per tante cose, infatti, si deve cambiare rotta all’interno del principale partito di centrosinistra. A prescindere dalle “colpe” della disfatta – che non possono ricadere tutte sull’ex premier -, c’è da rinnovare la segreteria, ma si discute anche di un nuovo nome, un nuovo simbolo, e delle alleanze. Interrogativi che colpiscono tanto i dirigenti, quanto gli stessi elettori che, per esempio, su chi debba succedere a Letta non hanno per nulla le idee chiare.
Gli elettori del Pd non sanno chi scegliere per la segreteria
Secondo un sondaggio di Demos & Pi, commissionato da Repubblica, quasi un elettore su due del Partito democratico non ha una preferenza netta sul prossimo segretario. Il 42% di chi ha scelto di dare il proprio ai voti dem nelle elezioni di tre settimane fa, infatti, non hanno idea su chi debba raccogliere il testimone di Enrico Letta, e questo nonostante negli ultimi tempi siano tanti i candidati che si sono fatti avanti per la guida del primo schieramento dell’opposizione.
Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia Romagna e più probabile vincitore delle primarie, per esempio, è avanti anche nei sondaggi, ma è una sorta di vittoria mutilata perché solo il 26% lo sceglierebbe con convinzione. E le cose vanno peggio agli altri: distaccata di 17 punti percentuali c’è la sua vice, Elly Schlein, mentre l’ex ministra dei Trasporti Paola De Micheli, che è la prima che si è autocandidata (anche prima che il segretario uscente convocasse la Direzione), raccoglie il 3% dei consensi, allo stesso livello di chi nel Pd non c’è proprio, ma addirittura è a capo di un altro partito.
È il caso di Giuseppe Conte. Il presidente del MoVimento 5 stelle, al momento, tra gli elettori democratici è allo stesso livello persino di Letta, che comunque ha detto che non si candiderà ma aiuterà solo a traghettare lo schieramento alla rivoluzione annunciata. Parlando poi di outsiders, Carlo Calenda, frontman del terzo polo (assieme a Matteo Renzi) e fondatore di Azione, piace al 2% di chi vota Pd, due punti percentuali in meno rispetto a Pier Luigi Bersani, che del partito è stato già segretario per le politiche del 2013 in cui si è arrivati primi, con il 25,4% dei voti, ma senza vincere. Il restante 8% degli elettori, poi, darebbe il proprio consenso ad altri politici.
Tornando, però, alle percentuali che raccoglierebbero sia l’ex presidente del Consiglio, sia il senatore romano, la domanda da porsi (e così ha fatto la rilevazione) è: in che direzione devono andare le primarie? Al di là delle alleanze, un tema di cui si discuterà prima del cambio in segreteria vista la vicinanza delle regionali nel Lazio in cui le forze del campo largo potrebbero anche presentarsi unite per evitare il rischio che si ripeta quello che è successo a livello nazionale con la netta vittoria del centrodestra, secondo il 44% degli elettori la scelta dovrebbe essere libera e sicuramente aperta anche a chi non fa parte del Pd.
Il 21%, invece, crede che le primarie dovrebbe tenere le stesse regole del passato, contro un 19% che pensa che siano uno strumento ormai superato e quindi che sarebbe meglio limitarlo. Addirittura un 4% è convinto che siano dannose e per questo devono essere abbondonate, mentre il 12% non sa rispondere.
Il futuro del Pd tra nomi e percorso: cosa pensano gli elettori
Ma chi guiderà il partito non è l’unico dilemma che ci si è posti nel Pd perché la disfatta del 25 settembre ha posto interrogativi a cui è ancora più difficile fornire una risposta. I consensi ottenuti seppur fanno dello schieramento del Nazareno il secondo in Italia dopo Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni non hanno di certo fatto sorridere i dirigenti e Letta in primis.
Così come non hanno segnato un passo avanti rispetto alle politiche del 4 marzo 2018, dove invece i dem hanno dovuto cedere il passo al movimento fondato (anche) da Beppe Grillo. Certo, rispetto a quattro anni e mezzo uno 0,3% in più è stato conquistato, ma non può essere considerato sufficiente per un partito che dovrebbe convogliare tutti i voti della sinistra, o almeno questo ci si augurava.
E quindi il rinnovamento in toto, che potrebbe passare dal cambio di nome e del simbolo o dello smantellamento generale, come ha detto Rosy Bindi qualche giorno dopo le elezioni. Per il 40% degli elettori dem, rileva ancora il sondaggio di Demos & Pi, la scelta del Congresso con le regole attuali per cercare un nuovo leader è la mossa giusta per rialzarsi, il 46%, però, la pensa in maniera completamente diversa: ciò che serve al Partito democratico è una rifondazione, un nuovo statuto e una nuova veste. Solo il 6% crede che sia finito il suo percorso per cui sarebbe meglio lo scioglimento, contro un 8% che invece non ha idea di quale sia la scelta migliore.
Le stesse domande sono state poste anche a chi non ha votato i dem. Solo il 20% di loro crede che il Congresso possa essere utile, il 40% è per la rifondazione, il 33% (quindi il 27% in più rispetto agli elettori del partito) è per lo scioglimento e il 7% non risponde.