Tra scissioni, fibrillazioni e continue negoziazioni, la tenuta del governo sembra farsi sempre più labile, nonostante le smentite del premier Draghi.
Uscendo ieri dall’aula di Palazzo Madama il premier Mario Draghi si è detto non preoccupato per la tenuta del suo governo. Ma è davvero così? L’esecutivo di larghe intese sarà in grado di raggiungere l’obiettivo di vita delle politiche nazionali del marzo 2023?
Quando nel febbraio 2021 Mario Draghi venne chiamato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a sostituire Giuseppe Conte come primo ministro, il mandato dell’ex banchiere era alquanto chiaro: risolvere la situazione pandemica causata dal Covid-19 attraverso un’efficiente campagna vaccinale e risollevare l’economia italiana mediante la stesura di un innovativo e strutturale piano di utilizzo dei fondi europei del NextGenerationEU (PNRR per l’Italia).
Dalla nettezza degli intenti ne è derivato l’ampio appoggio parlamentare e conseguentemente partitico all’operazione. Le forze che ambiscono al governo del paese hanno visto nell’economista 75enne un simbolo di stabilità internazionale, una assicurazione per l’immagine dell’Italia nel mondo e soprattutto una vera e propria testa di ponte che traghettasse il sistema-paese fuori dalla crisi per poi lasciare lo stato, di nuovo ripartito, nuovamente alla mercè degli interessi dei gruppi parlamentari.
Solo Fratelli d’Italia (ed altri sparuti gruppi dal peso politico ridotto) ha deciso di porsi all’opposizione, di fatto per capitalizzare in solitaria il ruolo di bastian contrario di fonte all’opinione pubblica. L’evolversi imprevedibile degli eventi ha però palesato il ripensamento di molti partiti, che ora probabilmente rimpiangono di non aver compiuto la medesima scelta di Giorgia Meloni.
Se difatti l’azione di Draghi è supportata dai vari centristi e moderati (in cui includere la sbiadita sinistra del Partito Democratico) che sono solitamente promotori di una politica di tipo liberale e garantista, tarata sull’equilibrio tra spesa pubblica e libera iniziativa privata; lo stesso non può dirsi di altri gruppi, la cui fortuna elettorale si è sostanziata attraverso messaggi facili e faciloni, sussidi promessi senza una struttura di interventi a darne senso pratico e attacchi verso minoranze e porzioni sociali la cui voce fatica a sentirsi per controbattere nell’arena pubblica.
Uno di questi, bisogna riconoscerlo, ha scelto più coerentemente la via dell’opposizione (la destra meloniana come detto), mentre Lega e Movimento 5 Stelle hanno ritenuto di dover dare il loro contributo all’operazione quirinalizia.
Tuttavia quello che per i leader delle due forze doveva essere un rilancio elettorale, si è rivelato un tonfo politico. Impegnati a ritrattare posizioni che contraddicono quanto detto negli ultimi anni, intestarditisi sull’idea (figlia del governo Conte I) che fare opposizione all’esecutivo standoci dentro porti alla massima visibilità mediatica e quindi al massimo apprezzamento quale simbolo di responsabilità e contemporanea rettitudine ideologica, le due forze populiste si sono ritrovate invece sempre più escluse ed illeggibili per il comune cittadino.
La Lega, grazie al forte radicamento territoriale datole anche dall’essere la forza politica più antica sopravvissuta a “Mani Pulite”, esprime un centralismo democratico che ricompatta tutti i ranghi intorno al leader riducendo al minimo gli scossoni; lo stesso però non può dirsi per l’M5S.
L’ormai stranota ultim’ora è la dipartita di Di Maio, che ha deciso di fondare un suo gruppo parlamentare strappando a Giuseppe Conte quasi un terzo dei parlamentari rimastigli (ora il partito grillino ha meno deputati della Lega, altro risvolto interessante per i possibili sviluppi governativi). La formazione dimaiana dovrà puntellare con dei voti sicuri lo scranno di Draghi, visto che ora il Movimento 5 Stelle attuerà mosse ancora più spregiudicate alla ricerca di consenso. La stessa Lega, ingolosita dall’essere il gruppo parlamentare di maggior peso a sostegno del governo, potrebbe aumentare le pretese ed i vincoli verso il premier Draghi.
Insomma, al marzo 2023 non manca ormai molto, ma c’è tempo sufficiente per qualche altro atto di questa tragicommedia italiana.
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