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Categories: Cronaca

Grillini indagati? Anche il Movimento 5 Stelle ha le sue pecore nere

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Dopo i primi anni al grido di “tutti ladri, tutti a casa”, quando l’iscrizione nel registro degli indagati bastava a far chiedere le dimissioni di qualsiasi politico a qualsiasi livello, il Movimento 5 Stelle ha cambiato rotta. Il nuovo codice etico, voluto da Beppe Grillo e approvato dagli iscritti a larghissima maggioranza (favorevoli il 91% dei votanti), recita che “la ricezione, da parte del portavoce (cioè di qualsiasi eletto del movimento ndr), di ‘informazioni di garanzia’ o di un ‘avviso di conclusione delle indagini’ non comporta alcuna automatica valutazione di gravità”. Il cambiamento è stato netto rispetto agli inizi: Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, è stato espulso per non aver avvisato della ricezione di un avviso di garanzia e ha lasciato il movimento in maniera ufficiale dopo l’archiviazione dell’indagine. Filippo Nogarin, sindaco di Livorno, ha avuto due avvisi di garanzia, ma non è mai stato sfiduciato. Il caso più noto è però quello di Virginia Raggi, sindaca di Roma, anche lei raggiunta da due avvisi di garanzia e difesa dal movimento.

Eppure, era lo stesso Grillo nel 2014, allo scoppio dello scandalo Mose a parlare di “larghe intese in manette”, sottolineando ancora una volta la distanza del movimento dai partiti tradizionali.

Finché toccava agli altri partiti, il giustizialismo era la parola d’ordine: quando le indagini hanno toccato componenti del movimento anche di alto livello, la marcia indietro e la riscoperta del garantismo, con la presunzione d’innocenza che vale per tutti.

Gli indagati nel M5S

Il cambiamento arriva dopo che esponenti del M5S sono finiti nei guai: indagati per gli scandali Rimborsopoli in Piemonte e in Emilia, poi il caso delle firme false in Sicilia, indagati per bancarotta e anche arrestati per rapina e sequestro di persona.

Tutti casi singoli, sia chiaro, su cui la magistratura sta ancora indagando e per i quali bisognerà attendere la parola definitiva dopo il terzo grado di giudizio. Essere indagati non vuol dire essere colpevoli ed è una cosa che vale per il M5S come per tutti gli altri esponenti politici.

Il dato degli esponenti pentastellati indagati per varie vicende non può però essere messo a tacere, perché lo stesso movimento si proclama fuori dai soliti schemi che hanno caratterizzato ieri, come oggi, la vita politica italiana. Lo slogan “tutti uguali, tutti ladri, tutti a casa”, è rischioso. Chi ruba o commette reati gravissimi contro la cosa pubblica è il singolo, non il partito . La criminalizzazione generalizzata è un errore che si può ritorcere contro lo stesso M5S. Seguendo la loro logica, basta un indagato a rendere tutti ladri, anche quando la stragrande maggioranza degli eletti fa il proprio dovere in totale onestà.

I primi a cadere sotto i colpi della magistratura nel 2013 sono i consiglieri regionali del Piemonte, travolto dallo scandalo Rimborsopoli che ha portato alla caduta di Roberto Cota e alle nuove elezioni, vinte da Sergio Chiamparino. Tra i 56 finiti sul registro dei magistrati per i rimborsi gonfiati, ci sono anche Davide Bono, M5S, e Fabrizio Biolè, finito poi nel gruppo misto in polemica con il movimento. Per i due sono arrivate le richieste di archiviazione della Procura di Torino, tanto che lo stesso Bono dichiarò a La Stampa che “questo dovrà farci ben riflettere e imparare a distinguere nettamente tra indagini e rinvio a giudizio”.

Stessa cosa accade in Emilia, quando lo scandalo sulle spese regionali colpisce tutto l’arco politico, M5S compreso. Tutti i capigruppo finiscono sotto la lente degli inquirenti: per i penstallati c’è Andrea Defranceschi che, in un post sul sito di Beppe Grillo, decide di fare chiarezza. “Il fatto che tutti i capigruppo siano stati dichiarati ‘indagati’ dovrebbe essere, sostanzialmente, un atto dovuto, una formalità. Significa che il lavoro della Guardia di Finanza sta per terminare, e i giudici decideranno chi rinviare a giudizio e chi no. Chi, quindi, sarà sottoposto ad un processo – che potrà concludersi con condanna o assoluzione – e chi invece, dopo l’indagine, risulti aver operato in perfetta regolarità”. Parole sante, che valgono per lui come per tutti gli altri.

Il 10 ottobre 2014 Andrea Defranceschi, consigliere regionale e capogruppo del M5S in Regione viene condannato dalla Corte dei Conti per l’utilizzo di fondi assegnati al gruppo per le interviste a pagamento. La corte ha condannato lui (e altri sei consiglieri di tutto l’arco parlamentare) per l’acquisto di spazi di programmazione disponibili dalle emittenti televisive a un risarcimento di 7.600 euro (108 per il 2010, 3.600 per il 2011 e quasi 4.000 per il 2012) oltre alle spese di giudizio. Per la Corte dei conti le spese per l’acquisto di spazi di comunicazione politica “risultano essere palesemente contra legem“. Il giorno seguente, sul blog di Bebbe Grillo viene pubblicata una nota in cui si legge che “Defranceschi non fa più parte del movimento“. Defranceschi ha fatto ricorso contro la condanna e risulta sospeso: se dovesse vincere, potrebbe anche rientrare. Sulle cosiddette “spese pazze”, la Corte dei Conti non ha fatto alcuna contestazione ai membri della Federazione della sinistra, Forza Italia, Italia dei Valori, Lega Nord, Movimento 5 stelle, PD, SEL e UDC i cui rendiconti 2014 sono stati giudicati regolari. (aggiornamento del 6 agosto 2015)

Ogni volta che la magistratura ha indagato dei politici per l’uso dei fondi pubblici, il M5S ha urlato allo scandalo, rimarcando la differenza con il movimento che ha fatto dell’onestà la sua bandiera. Quando però sono stati i loro eletti a essere indagati, i toni si sono subito abbassati, rientrando nel normale dibattito politico. Nel marzo 2014 Giancarlo Cancelleri, consigliere all’Ars e candidato alla presidenza contro Rosario Crocetta viene chiamato dalla Corte dei Conti per “chiarimenti in ordine al rimborso di fondi per la campagna elettorale di Rosario Cammarata (mandatario del deputato Cancelleri) per un importo di 8.730 euro in quanto gestione estranea all’attività del gruppo parlamentare, nonché in ordine all’emissione di un assegno non datato alla Point service per un importo di 136 euro”. Chiarimenti vengono chiesti anche per il viaggio a Bruxelles che i consiglieri M5S hanno fatto lo scorso giugno, spendendo 6.927 euro: “Bisogna precisare la motivazione del viaggio in relazione ai compiti svolti, all’interno del gruppo parlamentare, dai singoli partecipanti alla missione” e anche riguardo l’acquisto di libri e riviste, che “trattandosi di merce per la quale non è previsto il rilascio dello scontrino fiscale da parte del venditore, occorre allegare copia dei contratti di abbonamento alle testate giornalistiche, ovvero copia dei contratti di somministrazione stipulati con i fornitori”. Non indagini ufficiali, ma chiarimenti, come sottolinea il consigliere anche con un post su Facebook. I chiarimenti arrivano e la verifica sul rendiconto stabilisce che la spesa per il M5S (e per la lista Crocetta), è regolare.

Il 10 aprile viene invece ufficializzata l’iscrizione nel registro degli indagati di Daniele Ferrarin, consigliere comunale M5S di Vicenza, per bancarotta fraudolenta. Indagato e quindi presunto innocente, il consigliere ha il diritto di continuare la sua attività politica, anche secondo le regole del movimento che chiedono la rimozione da ogni incarico dopo una condanna, anche se in primo grado. La sua collega di partito, Liliana Zaltron però non ci sta e, insieme al meetup originario, ha chiesto le sue dimissioni. “La trasparenza è un obbligo fondamentale, per questo deve dimettersi: per una questione di opportunità e perché non ci ha detto niente”, le sue parole. Ferrarin non si è dimesso ed è tuttora un consigliere comunale e vice presidente del gruppo consiliare.

Il 24 aprile 2014 il gruppo di Bassano del Grappa viene raggiunto dalla notizia dell’arresto di Stefano Costa, candidato alle comunali: per lui l’accusa è di rapina aggravata, sequestro di persona ed estorsione. Il fatto risale allo scorso novembre quando Costa, insieme a un complice, avrebbe rapito un imprenditore padovano a scopo di estorsione, presentandosi come un affiliato della ‘ndrangheta. Oggi Costa è ancora in carcere e il movimento ha prontamente cancellato la sua candidatura.

Quando però nel gennaio 2016 l’amministrazione di Quarto (NA) viene colpita dallo scandalo delle infiltrazioni camorristiche fino a toccare la sindaca Rosa Capuozzo, la situazione politica diventa incandescente. Il consigliere Giovanni De Robbio viene indagato per voto di scambio: i magistrati indagano sui voti della camorra che sarebbero arrivati in massa al Movimento 5 Stelle per l’elezione del sindaco e sui presunti ricatti subiti dall’ex grillino, sospeso dal movimento al primo avviso di garanzia. Anche la prima cittadina viene espulsa dal M5S dal Direttorio. In un primo momento, la Capuozzo si dimette ma poi ritira le dimissioni da sindaco e continua ad amministrare la città campana da indipendente.

A maggio 2016, il Tirreno lancia la notizia delle indagini che coinvolgono il sindaco di Livorno Filippo Nogarin in merito all’inchiesta sull’Aamps, la municipalizzata che gestisce il servizio rifiuti e che si trova in procedura di concordato preventivo. Beppe Grillo scende in campo contro il quotidiano a difesa del primo cittadino e invita gli iscritti a non comprare più il quotidiano, ma ad ottobre è lo stesso Nogarin, dalla sua pagina Facebook a confermare di essere indagato per abuso d’ufficio, insieme all’assessore al Bilancio Gianni Lemmetti, e per bancarotta fraudolenta e falso in bilancio. La differenza con il caso Pizzarotti balza agli occhi della stampa e degli avversari politici, ma la difesa di Nogarin e del M5S è netta: il sindaco di Livorno ha annunciato pubblicamente di essere indagato perché “la trasparenza che per il M5s viene prima di tutto”, come ha scritto lui stesso sul social network, mentre il collega di Parma non ne aveva parlato prima che lo rendesse noto la stampa.

A novembre 2016 scoppia invece il caso delle firme false a Palermo. Dopo le denunce di alcuni attivisti e i servizi de Le Iene, la magistratura riprende il fascicolo, archiviato per mancanza di prove, sulle liste di firme presentate per la candidatura del movimento alle comunali del 2012. Il caso diventa sempre più grosso finché salgono a 13 gli indagati: tra loro anche alcuni deputati nazionali come Riccardo Nuti e Giulia Di Vita. Indagato anche Pietro Salvino, marito dell’altra parlamentare Claudia Mannino, già iscritta nel registro degli indagati, e Riccardo Ricciardi, marito della deputata Loredana Lupo (non indagata), che ha portato materialmente le liste in Comune. Chiamati dai pm, gli indagati si sono avvalsi della facoltà di non rispondere: l’11 novembre il collegio dei probiviri del M5S ha sospeso in via cautelare i parlamentari nazionali Claudia Mannino, Giulia Di Vita, Riccardo Nuti e l’attivista Samantha Busalacchi. Questo non significa però che non stiano facendo politica. Come si vede negli account social, l’onorevole Di Vita è sì sospesa ma continua l’attività di parlamentare del M5S.

Infine, il caso più scottante, quello di Virginia Raggi. La sindaca di Roma, dopo aver gestito le dimissioni di elementi centrali dell’amministrazione, a partire da Paola Muraro, l’arresto del suo braccio destro Raffaele Marra per corruzione, viene indagata per abuso d’ufficio e falso in atto pubblico in merito alla nomina di Renato Marra, fratello dell’ex fedelissimo, passato da vicecomandante dei Vigili alla Direzione del Dipartimento del Turismo. Nel pieno dell’interrogatorio, viene a conoscenza di una polizza di Salvatore Romeo, ex capo della segreteria politica da lei nominato con stipendio triplicato rispetto al precedente incarico in Campidoglio, “a sua insaputa”. Anche Romeo viene indagato e per lei arriva la seconda indagine, sempre per abuso d’ufficio, questa volta per la nomina dello stesso Romeo. Nonostante i tanti guai giudiziari, il movimento l’ha difesa a spada tratta, accusando la stampa di sciacallaggio.

Lorena Cacace

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