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Guerra del petrolio 2015, tutti i fronti aperti: equilibri geopolitici a rischio

L’oro nero non conosce religione. Che si sia di fede musulmana o di culto protestante, che si abbracci l’integralismo imbracciando il kalashnikov o si osservi lo shabbat a partire dal tramonto del venerdì, nulla ha più ragioni del petrolio. Si estrae, si trasforma e si comanda. Le politiche guerrafondaie – per carità, protette da nobili ideali, per scacciare questo o quel dittatore – negli anni, a dimostrazione che la storia si ripete, non si sono asservite di forze liberatrici, bensì hanno fatto uso di forze occupanti. Al tempo della guerra in Iraq – si, perché lì le truppe hanno centrato tutti gli obiettivi previsti dall’amministrazione Bush – era nota la cantilena secondo cui vi fosse l’esigenza di restituire l’ordine politico a quel groviglio religioso e tribale. L’azione necessitava di un’elegante giustificazione. Al giorno d’oggi, gli stessi puritani dello Stato islamico, combattendo per l’instaurazione di una teocrazia sunnita, vendono i giacimenti conquistati qualche ora prima.

E dalla Russia con furore, le mira espansionistiche mirano ai nodi strategici ucraini per la distribuzione europea di gas. Si aprono due strade: una guerra mondiale che non aiuterebbe quei pochi oligarchi, o uno stato delle cose così come appare, evidente, limpido, cristallino, perché nel caos è più comodo aggirare gli ostacoli.

Mamma America

La maggior parte del petrolio e del gas del mondo è di società governative. Le stesse BP ed ExxonMobil generalmente fanno riferimento ai propri paesi d’origine. Tuttavia, un intreccio petrol-politico è plausibile ed individuabile nel semplice studio di un po’ di storia recentissima. La Guerra Fredda era ormai giunta al giro di boa, e l’America avrebbe dovuto giustificare – quindi, rendere giusto o legittimo – i propri protettorati militari oltre l’Europa ed il Giappone. L’invasione del Kuwait da parte di Saddam offrì una varietà sconfinata di giustificazioni, una variegata scelta per ghiotte opportunità. La sfera d’influenza statunitense si allargò in una notte dagli Urali alla Mesopotamia, poiché abbisognava mettere il proprio punto sulle forniture, sulle quali contava l’Europa. Il cerchio internazionale e geografico si chiuse in una manovra sola: l’America, infiltratasi in Medio Oriente, aveva svelato il suo volto, la sua identità.

Con il controllo militare del Golfo Persico sperò di accedere ad un altro tipo di controllo, più subdolo: quello energetico. Condurre una politica clientelare con le superpotenze asiatiche, che tutt’oggi dipendono dalle importazioni di greggio, sarebbe stata la giusta scelta. Il Giappone, le cui scorte attingevano dai giacimenti di Kuwait, Qatar, Emirati Arabi ed Arabia Saudita, consentì alle truppe di Zio Sam il pattugliamento costante delle rotte marittime che dal Golfo Persico transitavano per l’Oceano Indiano.

Oggi, lo shale oil è il futuro dell’America più profonda: moderne tecnologie di triturazione idraulica si contrappongono agli obsoleti metodi di trivellazione. La rivoluzione nel settore è tale che gli Americani hanno il primato mondiale per riserve energetiche, scavalcando i principali estrattori di greggio e gas, rispettivamente Arabi e Russi.
Dunque, all’interno di un disegno generalissimo e sconveniente, gli Stati uniti monitorano il Golfo non tanto per pericolo di importazioni danneggiate da terroristi o pirati, quanto per garantire il rifornimento ai partner internazionali, ai danni di Russia e Cina. La politica di oscurantismo statunitense volta alla fittizia autosufficienza europea è poi tangibile nel riscontro di alcune infrastrutture che per struttura riflettono il contenuto di segrete riunioni all’interno di sale ovali.

Dal 2006 è attivo l’oleodotto Baku-Tblisi-Ceyhan, impeccabile distributore che tra l’Asia Centrale ed il Caucaso aggira l’insistenza russa. Dal canto suo la Russia, nell’attesa di nuove sanzioni, sta reagendo con la costruzione del proprio gasdotto – una contro risposta – South Stream, che dalla Russia porterebbe il gas, attraverso il Mar Nero, in Europa.

La Cina non ride, anzi

In una politica volta a garantire il consumo sicuro, nasce l’idea di un gasdotto casalingo Iran-Pakistan, che sostenga il fabbisogno cinese. Le importazioni cinese sono costrette a transitare in una regione ostica, infestata da presidi della US Navy: la zona in questione è lo stretto di Malacca, tra la Malesia e l’Indonesia. Ciò spiegherebbe il nuovo progetto, ostacolato dal principio dalla pressione finanziaria saudita sul Pakistan.

Intanto le valvole di sfogo non mancano al Presidente della Repubblica popolare, Xi Jinping, che aggiogherebbe il catenaccio militare statunitense con il corridoio birmano. Il desiderio di riserve è ravvisabile in alcuni specifiche rivendicazioni territoriali cinesi dello scorso maggio sui mari del Sud, sulla cui area d’interessi gravitano le influenze composite di Filippine, Vietnam e Giappone. Al tentativo di indebolimento perpetrato dai paesi del Patto atlantico, Mosca e Pechino rispondono con un gasdotto transiberiano. “La passione si riaccende. L’entusiasmo si infiamma. Il mito rivive” – citazione dalla confezione del gioco da tavolo “Risiko”, mai fantastica, sempre attuale -.

I petrodollari

Come sfidare l’egemonia statunitense? Semplice, giocando sulla valuta. La consuetudine di pagare il barile in dollari appare oggi agli occhi dei BRIC – Brasile, Russia, India e Cina – un vizio di forma da debellare. Un vizio di forma, dicevamo, che ha contribuito sui mercati internazionali a rafforzare la valuta in questione, dimostratasi poi incrollabile in condizioni di crisi nazionale. I petrodollari non hanno però garantito il deficit americano, vessato da guerre ventennali.

L’amministrazione Bush al crollo delle torri annunciò con sicurezza il costo preventivo dell’intera missione irachena, calcolato per 4 miliardi di dollari. Ad oggi la stima è ben più onerosa: 800 miliardi – espressi anche questi in petrodollari – che escludono i costi in termini di vittime o distruzioni.

I fatti

Le riserve americane, legate alle tecnologie di fracking, si stimano pressoché illimitate sino al 2035. Dunque l’America fino ad allora non avrà necessità di importazioni. La palla del testimone volge ora verso l’Europa che dovrà decidere se buttarsi con un salto nel vuoto in proprie perforazioni o continuare ad interagire con le diplomazie caucasiche, orientali o medio-orientali.

Siamo in un momento cruciale della nostra storia moderna, il cui fulcro si concentra in una disquisizione prima ideologica e poi reale: dare allo Zio Sam il via libera per auto-assurgersi, ancora per una volta, a faro del mondo libero o lasciare alle strambe grida di un califfato sunnita di urlare per il Mondo. Oggi, più che mai, è necessario il reale arbitraggio delle più moderne democrazie, poiché se è vero che l’Europa ha ancora molto da imparare sul contorto emisfero degli idrocarburi, è anche vero che nel marasma generale i giochi di potere possano essere stimati anacronistici. La questione resta ideologica.

Danilo Capone

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