Le vere vittime delle guerre, come quella in Siria, sono i bambini. Sotto l’assedio dell’Isis, o in fuga dai terroristi, la loro vita viene continuamente messa a repentaglio. Muoiono sotto le bombe, per le malattie, per la fame, o annegando durante i viaggi della disperazione verso l’Europa. Nel rapporto “Infanzia sotto assedio”, a cinque anni dall’inizio della guerra civile in Siria, Save the Children denuncia la drammatica condizione dei bambini sotto assedio in città dove mancano cibo, medicine, beni primari come l’energia elettrica e gli aiuti umanitari sono insufficienti. I bambini siriani continuano a morire anche fuori dal loro Paese, nell’indifferenza generale.
Secondo il rapporto di Save the children, i bambini siriani che vivono tra bombe e cecchini sono almeno 250mila. Quasi la metà delle vittime della guerra non hanno nemmeno 14 anni. Nel rapporto si parla di bimbi malnutriti, affamati, costretti a mangiare cibo per animali e foglie. “Molti bambini non hanno mai visto una mela o una pera. Non hanno mai assaggiato un pollo e non mangiano verdura da un mese”, racconta un operatore. Per i neonati scarseggia anche il latte materno: la situazione delle madri è terribile e spesso non hanno latte a sufficienza. I piccoli, per non morire di freddo, girano per trovare qualcosa con cui scaldarsi.
Molti finiscono per drogarsi o vittime di abusi sessuali e matrimoni precoci. “I bambini stanno morendo per mancanza di cibo, di medicine o per cause assurde come l’ingestione accidentale di veleni mentre scavano alla ricerca di qualcosa da mangiare – denuncia Valerio Neri, direttore generale dell’organizzazione nata per salvare i bambini in pericolo e difenderne i diritti – E a pochi chilometri da loro ci sono magazzini colmi di aiuti. I bambini vivono in vere e proprie prigioni a cielo aperto, dove i cecchini sparano a chiunque tenti di scappare. Sono tagliati fuori dal mondo, insieme alle loro famiglie e circondati da gruppi armati che utilizzano l’assedio ai civili come arma di guerra. Questi bambini stanno pagando il prezzo dell’immobilismo del mondo”.
Tremenda la situazione sanitaria, con gli ospedali spesso distrutti dai bombardamenti. Quelli ancora in piedi devono affrontare la scarsità di medicinali: “Molti bambini sono morti a causa della rabbia; le malattie della pelle e dell’apparato digerente sono diffusissime perché è stata interrotta la fornitura dell’acqua e le persone utilizzano quella che trovano nei pozzi di superficie, spesso inquinata dai liquami – racconta un medico. – I medici non possono effettuare trasfusioni perché mancano le sacche per il sangue. A un mio amico hanno dovuto amputare una gamba perché non avevano il materiale necessario a curarla. Un bambino ha perso entrambi gli occhi perché mancavano gli strumenti per estrarre le schegge”. Per non parlare dei migliaia di orfani che finiscono per essere arruolati dalle milizie, accettando per non morire di fame. In alcune aree della Siria vengono arruolati già a otto anni.
I bambini continuano ad annegare come il piccolo Aylan
I bambini che riescono a fuggire dalla Siria, facendo i conti con un’Europa che chiude le frontiere, rischiano di morire in mare. Ricordate il piccolo Aylan, morto sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, mentre con altri disperati provava a raggiungere la Grecia? La foto del suo corpicino fece il giro del mondo, provocando un’indignazione generale e il “mai più” (di facciata) dei potenti del mondo. Ebbene, il piccolo Aylan non è stato l’ultimo, anzi.
Da quel 2 settembre 2015 sono infatti annegati 340 bambini. Due al giorno, in media. Gli ultimi tre la notte del 5 marzo. Tre sorelle yazide: Dlkhos, Bassma e Shreen, di 8, 12 e 15 anni. Anche loro, come Aylan, stavano scappando dall’Isis. Erano partite con la mamma, dopo aver pagato 5mila dollari agli scafisti. Volevano raggiungere il padre in Germania da agosto, ma la barca è affondata. Si è salvata solo la madre. Altri bambini morti nell’indifferenza mediatica: “All’inizio sono venuti giornalisti da tutto il mondo. Da Londra e dal Giappone. Poi, più nessuno. Non ho visto politici. E no, non mi hanno più chiesto di Aylan”, racconta amareggiato il proprietario di un ristorante vicino alla spiaggia dove morì il bambino. Proprio nei primi giorni di marzo i trafficanti che avevano organizzato quel viaggio sono stati condannati dal tribunale di Bodrum a quattro anni e due mesi di carcere. Ma per uno scafista in carcere, ce n’è un altro pronto a trasportare altri disperati, tra cui bambini, le cui speranze di una vita migliore finiscono spesso tra le acque del Mediterraneo.
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