Erling Braut Haaland è un alieno che si è abbattuto sulla Premier League e sul calcio mondiale, distruggendo qualsiasi ostacolo gli si ponga davanti. Senza compromessi. Il matrimonio con Pep Guardiola funziona alla perfezione e non era affatto scontato, soprattutto perché il precedente era quello con Zlatan Ibrahimovic. Ma ci sono delle differenze che non si possono ignorare.
Il giorno dopo l’ennesima vittoria in Champions League del Manchester City di Guardiola, si parla sempre e solo di lui: Erling Haaland. Perché il norvegese sta scaraventando al suolo qualsiasi avversario cerchi di mettersi in mezzo tra lui e le vittorie, e quindi la storia. Il mister degli inglesi, uno che a Barcellona e non solo definiscono come il migliore di sempre, ha gli occhi dell’innamorato, del bambino che ha scovato il giocattolo ideale e di chi ha scoperto il Sacro Graal, oppure semplicemente una via di gioco più cinica e letale che non stravolge i suoi principi, ma li impreziosisce. E allora vi facciamo e ci facciamo una domanda: perché con Zlatan Ibrahimovic non è andata così?
Settimana dopo settimana, ci stiamo quasi abituando all’inusuale, o forse ad ammirare la storia, che se è nel presente la si apprezza un po’ di meno, ma comunque sempre storia rimane. Se Lionel Messi e Cristiano Ronaldo l’hanno scritta a furia di sbronze di talento, il primo, e straordinaria applicazione, tenacia e fiuto (flair, per dirla all’inglese), il secondo, Haaland è ancora qualcosa di diverso.
È quel diamante che tutti cercano, ma nessuno trova. Quel problem solver che è l’essenziale, ma anche il più prezioso nel calcio. È semplicemente quella macchina perfetta, robotica, e non per questo meno affascinante, che ogni allenatore vorrebbe. E, quindi, non ci sorprendiamo più se, seduti sul divano, lo vediamo esultare una, due, tre volte nel giro di novanta minuti. Se il giorno dopo, l’odore fiammante e un po’ d’epoca della carta dei giornali inglesi apre con l’ennesimo record frantumato dal centravanti nato a Leeds, nel Regno Unito, e non per ironia della sorte.
Il norvegese, infatti, è cresciuto a calcio e pane inglese. Il papà la storia non l’ha scritta, sicuramente non aveva il suo talento, ma gli ha trasmesso l’ossessione per il gol, che Erling ha concretizzato in una piacevole anormalità che è ormai consuetudine: vivere per la semplicità, vivere per metterla dentro, per essere al posto giusto al momento giusto.
Haaland non è un quel calciatore che scarta quattro avversari con doppi passi, serpentine, sterzate, finte e controfinte che lasciano incantati e un po’ sognanti. Niente di tutto ciò, che tanto ci pensano gli altri. È un energumeno di 195 centimetri d’altezza che corre dritto verso la porta e scansa gli avversari, il cui incedere quasi da Avenger sta alimentando meme e ironie di ogni tipo sui social. Eppure era esattamente il tassello nel puzzle del calcio totale di cui Guardiola aveva bisogno e lo dimostrano i numeri. Il norvegese ha già totalizzato 28 gol in 22 partite di Champions League, cinque in tre partite solo nell’edizione attuale. E il tecnico spagnolo l’ha sostituito a fine primo tempo contro il Copenaghen un po’ per coccolarlo, un po’ per buongusto.
E se passiamo a snocciolare i numeri in Premier League, c’è da impazzire, ma per gli avversari e per chi deve aggiornare gli almanacchi dei record. Quattordici gol e tre assist in otto partite, il 59% di partecipazione al gol nel Manchester City che ne ha fatto 29. E tre triplette magiche, di cui una nel derby contro lo United, il più veloce nella storia a riuscirci.
Sì, avete capito bene. Riepiloghiamo un attimo: Haaland è un classe 2000, un po’ norvegese e un po’ inglese. Un po’ filetto di renna e un po’ fish and chips, cresciuto calcisticamente anche in Austria e poi in Germania. Abituato alla Rurh di Dortmund e ora anche alle industrie di Manchester, che poi per lui ha il sapore dell’infanzia. Il tutto shakerato da un cuore norvegese, in cui è leader e accentratore totale. Ah, a proposito, in Nazionale, con compagni (non ce ne vogliano) molto meno tecnici di quelli del City, ha segnato 21 gol in 23 partite. Un Frankestein dei giorni nostri che Mary Shelley a fatica avrebbe potuto immaginare in maniera così complessa e tradurlo in un calciatore così maledettamente essenziale da risultare imprendibile.
Se li riguardate tutti e 19 i gol del classe 2000, non troverete gesti tecnici di rara bellezza, né arte calcistica barocca, né imprese che richiamino le discese da spot pubblicitario e telecronache a perdifiato di Messi e Maradona. Sì, troverete spaccate da ballerina, tap-in vincenti, bombe sotto la traversa, senza tanti fronzoli. E l’avreste mai detto che uno del genere avrebbe fatto perdutamente innamorare uno come Guardiola? Proprio lui, il nudo e puro del rinascimento del calcio totale, il veggente della tattica che sa anticipare cosa faranno gli avversari prima ancora che lo pianifichino del tutto, il ragno del possesso palla che intesse la sua tela e poi ci incastra gli avversari, a furia di mal di testa, che un’intera farmacia non basterebbe a curare tanta frustrazione.
Innanzitutto, c’è da dire una cosa. Guardiola non è un borghese prestato al proletariato e che lo schifa pure un po’. È quello di Roma e di Brescia, della Catalogna, quindi della passione, ma in tutte le sue sfaccettature. E comunque le tappe della sua carriera l’hanno un po’ modificato, per forza di cose. Anzi, arricchito. La Baviera ti resta dentro, con i suoi schemi, le sue birre, le sue follie ragionate e il culto della precisione e della perfezione. Poi anche la Premier League, il regno dell’iper fisicità e delle statue, poi anche del talento, ma quello Pep l’ha sempre valorizzato.
E comunque l’etichetta del falso nueve, nove (oh, ditelo come vi pare) non se l’è mai tolta, senza considerare che al Barcellona non aveva l’alieno, ma il Dio del calcio travestito da Pulce: Messi e poi altri dieci, tanto da far passare in secondo piano anche gente come Xavi Hernandez e Andres Iniesta. Ma torniamo a noi. L’evoluzione di Guardiola non è stata tanto nei principi di gioco, ma nelle loro sfaccettature. I suoi elastici, gli scatti in profondità, l’ossessione per il tiki taka, che ora è anche nel dizionario di Cambridge, sono sempre lì e funzionano pure. Ma Haaland non si contrappone per nulla a questa visione ma la completa, come l’orgasmo alla fine dell’atto sessuale.
Molti, giudicando il libro dalla copertina, hanno storto il naso quando il gigante norvegese ha preferito l’offerta dei Citizens a quella del Real Madrid, e prima ancora quando Guardiola in persona ha spinto per acquistare lui e solo lui al centro dell’attacco. I fatti stanno smentendo gli scettici. E semplicemente perché il bomber nato a Leeds è l’uomo perfetto per capitalizzare l’immensa mole di gioco creata dai campioni d’Inghilterra. Essenzialmente, Haaland vince i duelli, sfugge ai difensori, domina quegli ultimi passi e contrasti decisivi che separano i centravanti dai gol. Poi, certo, la tecnica non manca, perché sa segnare in tutte le maniere possibili e con un fiuto raro per la porta. Una vera e propria punta di diamante che non rende il look semplicemente più prezioso, ma lo corona alla perfezione. E se ci pensate è stato un po’ sempre quella la crepa che ha separato Guardiola dal vincere la Champions League con il City. Comunque Pep adorava anche Robert Lewandowski, a proposito di bomber totali.
E Zlatan Ibrahimovic? Beh, lì entrarono in gioco diversi fattori e un tempismo pessimo. Lo svedese era sì una precisa richiesta del tecnico spagnolo, ma le caratteristiche del Dio svedese sono quelle di un accentratore del gioco offensivo, più che di un capitalizzatore. Samuel Eto’o, per esempio, lo era molto di più, ma senza quella dose di onnipotenza fisica che probabilmente Guardiola desiderava. Zlatan amava, ancor più degli ultimi anni, svariare su tutto il fronte d’attacco, catalizzare l’attenzione di due o tre avversari, poi andare all’assist per i compagni che colmavano il suo spazio in area o tentare la soluzione individuale. Avendo attorno gente come Xavi, Iniesta e soprattutto Messi, la cui simbiosi con il pallone ha dei tempi e degli spazi totalmente diversi, la cosa non ha funzionato. E, quindi, diverse qualità di Ibra non si sono miscelate con quelle dei campioni che aveva affianco.
Poi c’è anche la questione ambientale e caratteriale. L’attuale attaccante del Milan non ha un’indole semplice, è un leader di rottura, di quelli che o stai con lui o contro di lui. E con Messi era battaglia persa in partenza, in una squadra Leo-centrica e che era intrisa di quella magia notturna un po’ shakespeariana, un po’ dostoevskiana quasi irripetibile. Insomma, Ibrahimovic era l’uomo sbagliato al momento sbagliato, nonostante qualche gol pesante e qualche giocata da numero uno, ma era pur sempre lui. Se n’è dovuto scappare Ibra da quello spogliatoio, ma solo perché troppi galli nel pollaio alla fine non sono gestibili e finiscono solo per pestarsi i piedi. Questione, quindi, di caratteristiche tecniche, di habitat, di feeling: tutti ingredienti che tra il Manchester City e Haaland ci sono alla perfezione. Stavolta, quel pazzo sognatore e ossessionato di Guardiola se l’è studiata bene la ricetta per tornare sul tetto d’Europa e, nonostante siamo solo a ottobre, non c’è chi potrebbe dire il contrario.
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