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Sport

I fischi alla fine di Inghilterra-USA hanno ribadito che i tifosi pretendono il bel gioco (e un bel Mondiale)

Inghilterra-USA è terminata tra i fischi degli spettatori presenti stasera allo stadio Al Bayt ed erano oltre 68 mila. Al di là del contesto di quello che stiamo vedendo in Qatar, questa partita ha scandito ancora una volta l’esigenza più moderna, classica e profonda del tifoso moderno: il bel gioco, le emozioni, l’agonismo sono sempre più un’esigenza. Forse anche più della vittoria, se le due cose non sono strettamente connesse. Un’esigenza, quindi, e poi anche un grido d’aiuto: osate e fateci divertire.

Inghilterra-USA – Nanopress.it

Il Mondiale in Qatar sta regalando tante polemiche prima, durante e sicuramente dopo, perché una storia del genere non può essere dimenticata da chi il calcio lo ama, ma di certo non divertimento. Inghilterra-USA è stata il manifesto di un calcio pragmatico, cinico e obsoleto. Esattamente il contrario di quello che chiedono i tifosi. I supporters presenti hanno boicottato uno stile di gioco dal braccino corto e che, alla fine, non è neanche uno stile di gioco. È semplicemente poco. È un urlo disperato, una petizione dai fogli stropicciati per mandare in pensione l’esatto contrario dello spettacolo sportivo, in nome di un risultatismo perdente in ogni caso. La svolta non è solo politica, ma anche segno di un bisogno sempre più forte.

Inghilterra-USA è il manifesto della noia e del mal vivere

Il poeta Charles Baudelaire ha fatto del ‘male di vivere‘ un’essenza, una centrifuga dell’angoscia che si ossigena da due boccagli: la noia di vivere e il disgusto della vita. Se Baudelaire avesse scritto la regia della partita tra Inghilterra e USA, non sarebbe andato tanto lontano da quello che è successo all’Al Bayt. Eppure, c’è si è immalinconito, sì, ma ha anche fischiato, manifestando contro il calcio dei brutti e cattivi. Altro che zitti e buoni, eh Damiano!? Stasera, nell’incoscienza sportiva del Qatar, è cambiato il ruolo del tifoso, una nuova borghesia del bello. E la borghesia, si sa, spende e giudica. Amore incondizionato, sì, ma solo per il gioco più bello del mondo.

Ma cosa è cambiato davvero? Il ritmo, innanzitutto. In campo la Premier League ha abituato il pubblico di tutto il mondo a poche cose essenziali: un prato verde, strutture all’avanguardia e ventidue indemoniati che rincorrono un pallone. Dimenticate i campioni della TV quando l’HD non c’era proprio e i pantaloncini si alzavano ben sopra l’ombelico. Ritmi più lenti, fisici diversi, materiali e livello atletico completamente diversi. I calciatori del campionato inglese sembrano gli omini di Fifa 23, ma in carne ed ossa. In Italia siamo indietro. E il Mondiale sta dimostrando che il livello medio è drammaticamente più basso.

Inghilterra-USA – Nanopress.it

Eppure il bacio di giuda stasera l’ha dato proprio in l’Inghilterra. La squadra di Gareth Southgate ha impressionato nel 6-2 all’Iran e l’ha fatto per motivi poco banali: la qualità offensiva, la capacità di liberare i calciatori al tiro e la forza predestinata dell’attacco, intraprendere, cinico e a tratti irresistibile.

La scorpacciata quasi bulimica dell’esordio, però, è stata seguita da una dieta ferrea e spietata. Come aprire una scatola piena di sogni e trovarci dentro solo cenere e carbone. Inghilterra e USA arrivavano al match di stasera dalla Grande Bellezza – un po’ come la pizza all’estero – che è stata un paesaggio dipinto a suon di sogni, talento e la razionalità dell’amore. Southgate ha liberato i leoni, gli americani hanno accarezzato l’erede di Weah, suo figlio, con indosso colori diversi, giusto per il gusto di superare il padre, almeno per una volta. E l’asticella delle ambizioni è salita come il livello etilico di chi va a ballare il venerdì sera con quell’amico che ‘ci eravamo persi ed è ora di ritrovarci’.

Comunque dai, nei primi sessanta minuti qualcosa si è anche visto. Lo sbadiglio era dietro l’angolo, ok, ma almeno c’è stata un po’ di cattiveria, qualche incursione interessante, delle gocce di sudore e anche una partita vera.

Il croccantino, però, poi si è rivelato una polpetta avvelenata e negli ultimi trenta minuti i protagonisti hanno regalato ai tifosi presenti e a quelli collegati da casa una partita per cui neanche ci pensi se sacrificare il sabato sera per affossare il divano.

Siamo onesti: il nulla. Passaggi orizzontali, pallone sballottato e maltrattato, pochissimi rischi. Missione compiuta, perché il pareggio era un buon risultato per entrambe e soprattutto andare a dormire a mani vuote sarebbe stato molto più complicato. Ha prevalso la voglia di non rischiare, insomma, quella di non perdere rispetto al gusto di vincerla. Prudenza o schiavitù del bello? Le catene di Baudelaire, appunto. Il carcere dello spettacolo e l’orgasmo interrotto. Troppo, anche per i dubbi tifosi qatarini, che sembrano robottini costruiti in laboratorio, tipo puntata dei Simpsons. Proprio loro, quelli che pare siano stati pagati per essere sempre felici, hanno fischiato e neanche poco.

Tifoso USA – Nanopress.it

Kane, Weah e compagni hanno finito la partita in un teatro del dissenso calcistico. Hanno alzato i tacchi e se ne sono andati nel mezzo dell’epitaffio del catenaccio. Che poi stavolta manco di catenaccio si può parlare, che almeno quello pretende agonismo, cattiveria, arte difensiva. E, invece, qui il nulla. Il controllo passivo di uno 0-0 già di per sé passivo, che non soddisfa nessuna voglia, solo la frenesia di quel balzetto in classifica che è una frecciata diretta a Luciano Ligabue: chi si accontenta gode.

Non l’hanno accettato. Perché noi abbiamo fatto zapping e magari abbiamo pure schiacciato un pisolino. Ma loro, i tifosi allo stadio, hanno visto abortiti i loro sogni di meraviglia e si sono abbandonati a incupirsi, non senza innervosirsi. Poi, per carità, dalla prossima i britannici potranno tornare a dominare e gli USA a stupire, ma è il modello che non piace. E ha avuto come esito finale uno scenario inaspettato e ha lasciato tutti con gli angoli della bocca sotto il basso? Questa è una rivoluzione rumorosa.

Un messaggio indiretto alla grande assente: l’Italia

I musi di tristi, in un viaggio di qualche ora d’aereo, sono quelli che spuntano puntualmente in molti stadio della nostra Italia. E che abbassano il rating a una Serie A che sembra sempre più povera di tecnica e di campioni. Sembra ormai quasi scontato scriverlo – e forse altrimenti saremmo almeno al Mondiale -, ma il nostro campionato non è più quello dei Totti, dei Del Piero, dei Baggio e dai anche dei Vieri e dei Cassano. L’attacco pullula di esterofilia e impazienza per il talento, ma soprattutto molti allenatori preferiscono più la fisicità alla creatività e al rischio che è insito nella voglia di bello. Che poi ti scopri, ti becchi l’influenza e prendi pure gol. No, no meglio vincere e non convincere, semmai. Meglio il corto muso, ma quale Tiki taka. Una filosofia che non è d’amore, ma Machiavelli direttore d’azienda.

Per molti è semplicemente sottocultura antica, per altri l’ossessione di fare il contrario. Di opporsi alle gabbie dell’aspettare e ripartire, di garantire alla società, ai tifosi, all’intero movimento quella dose di identità tattica e respiro di calcio totale che è un mantra per certi allenatori cresciuti a pane e difesa alta. Per carità, non c’è nulla di male ogni tanto ad accettare la superiorità di alcuni avversari e gestire in maniera intelligente la propria fase offensiva per enfatizzare quella difensiva. Però, poi, arriva il punto di capire chi si è e chi si vuole essere: quello non si improvvisa.

Massimiliano Allegri -Nanopress.it

Quindi, per arrivare al punto, in Italia ci troviamo di fronte a un bivio a due schieramenti. Come Puma e Adidas. Da un lato ci sono i duri e puri di un calcio che – forse e comunque si voglia – è andato in pensione. Dall’altro la volontà di qualcosa di nuovo, del talento al centro del gioco, del bello che balla e rende. Ed è l’ora di farvi qualche esempio. Beh, da un lato c’è la Juventus, dall’altro il Napoli, per esempio.

Gli uomini di Massimiliano Allegri hanno avuto momenti buoni e hanno chiuso, prima del Mondiale, con sei vittorie consecutive e nessun gol subito. Non può essere casuale e bravi loro. La prima parte della stagione, però, è stata dominata da quello che in molti hanno definito ‘non gioco‘, senza vergognarsi. Il tecnico livornese i calciatori li ha, non credete al contrario, anche per sopperire agli infortuni di troppo, ai Chiesa, Pogba e Di Maria con l’abbonamento all’infermeria. Eppure, in diverse prestazioni e soprattutto contro Benfica e Maccabi Haifa è rimasta nelle menti delle persone una sensazione di desolazione e pochezza tecnica disarmante. La squadra di Allegri sembrava imprigionata in se stessa, quasi incapace di mettere quattro passaggi insieme, senza regalare il pallone agli avversari. Troppo per essere accettato. E anche lì la risposta più forte l’hanno data i tifosi. Con i fischi, disertando di fatto l’Allianz Stadium e chiedendo in tutti i modi possibili l’esonero o le dimissioni del tecnico ex Milan e del ciclo di scudetti juventino.

Una condanna totale, anche alla qualità dei calciatori e alla società che ha costruito il solito e solido palazzone di potenza e blasone ma stavolta senza le fondamenta del talento necessario per chi vuole vincere lo scudetto. Lo schema che non rende, la qualità che non emerge e l’insoddisfazione crescente fino alla misura colma. Ora qualcosa è cambiata, ma sembra più nel verso di un pragmatismo che non piace, ma funziona. Ed è molto più un filotto dei zero gol subiti, che non delle reti fatte. Partite contro la Lazio a parte. E poi c’è da confermarla la continuità, che da gennaio non ci sono proprio più giustificazioni, dopo che la Champions League è già saltata in un paio – alla romana – di sere maledette di mezzo autunno. Insomma, se la media è da promozione, la bocciatura era troppo grave per il resto dell’anno, ciò che il risultatismo con può confermare. E neanche il minimalismo del facile è bello. Che facile e semplice non sono quasi sempre la stessa cosa.

E dall’altra parte c’è il Napoli. Una macchina da gol e bellezza. E come sono arrivati? Innanzitutto, piazzando in panchina quel filosofo che ha scelto di fare calcio e farne bene, quel funambolo delle parole e della tattica che è Luciano Spalletti. Il tecnico che nella Roma è stato capro espiatorio e nell’Inter l’uomo giusto al momento sbagliato la sua rivincita sul dissenso gossipparo se la sta prendendo tutta. Ed è una storia bella, fatta da chi vende i campioni senza rimpiangerli per buttarsi con pazienza e programmazione sul calciomercato per far brillare e responsabilizzare talenti semi-sconosciuti. Crederci, finalmente, in nome della stabilità finanziaria ma soprattutto di un progetto che recupera il suo reale significato. E a quel punto basta coglierne i frutti e cercare di non diventarne dipendenti, come i dribbling di Kvaratskhelia e il muro invalicabile di Kim, ma anche quell’animale d’agonismo offensivo di Victor Osimhen.

E a cosa ha portato? A record meritati e spumeggianti, stravolgenti per la mentalità che c’è alla base. Un modo di fare forse inedito in Italia e che ha permesso in Europa di essere una novità attraente agli occhi delle massime squadre e filosofie internazionali. Chiedete a un certo Jurgen Klopp per credere, che i complimenti non se l’è tenuto nello spogliatoio, ma li ha portati davanti alle telecamere, quasi a dare una wild card ai nuovi praticanti del bello, di cui forse lui è uno dei consiglieri d’amministrazione. E soprattutto anche ai risultati, molto più della Juventus, per restare nel paragone. Perché il vantaggio e il primato consolidato sul Milan campione d’Italia e poi su tutte le altre è solido e motivato, non un exploit destinato a sgonfiarsi. Uno scudetto in Campania sarebbe una vittoria schiacciante al cuore dei brutti e vincenti. Sarebbe un messaggio ben chiaro all’eccessivo patriottismo tattico italiano: si può giocare bene e vincere senza il bisogno di giocare male per non convincere, e vincere, forse.

E qui torniamo a Inghilterra e USA. Entrambe si sono avvicinate molto di più alla qualificazione, e tanti auguri. Ma a quale prezzo? Al prezzo del ridimensionamento e della delusione. Lo scrivevamo: i media, il web, i video hanno istruito il tifoso che ora sa di cosa si parla e sa soprattutto a cosa aspirare. Non può essere uno 0-1 strappato per i capelli e neanche i cinque zero a zero che abbiamo già visto al Mondiale. Senza contare anche le partite decise all’ultimo minuto. È l’aberrazione della noia e l’esaltazione dello spettacolo, della fase offensiva che diventa in sé e per sé fase difensiva. In Spagna l’hanno capito da anni per esempio, e nel bene e nel male, non si sono mai traditi. I tifosi hanno indicato ancora una volta la via: ora presidenti, allenatori e calciatori non possono che ascoltarli. E sarebbe giusto così.

Mariacristina Ponti

Nata nel lontano 1992, nel giorno più bello per nascere, a Cagliari. Dopo la maturità scientifica, volo a Padova e poi a Roma per studiare lettere. Nella Capitale poi rimango anche per il master in giornalismo. Tra stage a profusione, sempre nelle redazioni sportive, anche se il vero amore è sempre stato la politica, ho ancora da ritirare un tesserino da professionista.

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