Pitchfork, un magazine influente, famoso e radicale, ha criticato – pardon, massacrato – i Måneskin e, nello specifico, il loro ultimo album, Rush!. Il problema sono le loro sonorità, il loro frontman, Damiano David, ma anche la loro provenienza: da Roma non arriva nessuna rock band, a parte loro e questo per il magazine è un punto di debolezza. Riflettiamoci su.
L’ultimo – in ordine cronologico – lavoro dei Måneskin non è piaciuto negli USA, ormai lo abbiamo capito. Si chiama Rush!, è uscito da pochissimo ed è in pratica la prima “caduta” pubblica della band romana oltreoceano. Per Pitchfork merita addirittura un 2 (su una scala da 1 a 10), per vari motivi, tra cui la provenienza della band. Ma è giusto pensarla così?
Può la provenienza di un band segnare il suo stesso destino? Secondo Pitchfork – uno dei magazine musicali in assoluto più estremi, per così dire – sì. E ci perdoneranno – anzi, perdoneranno Pitchfork – tutti gli abitanti della capitale (e, soprattutto, gli aspiranti musicisti), perché sì, è proprio dei musicisti romani che si parla nel tanto chiacchierato articolo del magazine.
“Måneskin are from Rome, a city famous for a thousand things before you get to good rock music” (“I Måneskin sono di Roma, una città famosa per migliaia di altre cose, prima che per la musica rock”): così recita il pezzo incriminato. I Måneskin, quindi, la rock band italiana attualmente più conosciuta nel mondo, i vincitori dell’Eurovision, la band la cui versione di Beggin dei Four Season è riuscita a entrata direttamente nella Billboard Hot 100 e ad arrivare alla 13esima posizione (sono stati la seconda band vincitrice del contest a farlo nella storia della musica mondiale), che è stata ospite di uno degli show più celebri al mondo, il Tonight Show di Jimmy Fallon, che ha aperto il concerto dei Rolling Stones, che ha meritato tra gli spettatori di uno dei suoi tantissimi concerti addirittura Angelina Jolie, non sono degli ottimi musicisti, perché sono di Roma, secondo il magazine. Non sono degli ottimi musicisti perché sono di Roma, dobbiamo ripeterlo, perché forse non è abbastanza chiaro.
E, se neanche dovesse essere abbastanza, ci pensa anche il voto dato al loro ultimo lavoro a parlare chiarissimo: Rush!, il nuovo album della band, ha guadagnato un 2.0 (il punteggio va da 1 a 10). Il motivo? Sarebbe “assolutamente terribile da ogni punto di vista” e, secondo
Secondo il magazine i brani peggiori sono Cool kids – che comunque non ha riscosso un enorme successo nella critica, dobbiamo ammetterlo – sia per il “finto accento britannico” di Damiano, sia per la “bordata satirica contro i “ragazzi fighi”, sia per la “lamentela sociale da parte di una band che non è solo vestita di Gucci, è vestita da Gucci”.
No, (purtroppo) non è ancora finita qui: la recensione continua e diventa via via sempre più cruda, spaziando tra una considerazione sul loro essere “alternative rock” in un’epoca in cui non esiste più però l’alternative rock, un’altra su quanto il “il loro successo venga da un talent e dagli algoritmi” e un’altra ancora su quanto in realtà il fatto che Beggin abbia scalato le vette più alte delle classifiche di Billboard non sia “stata una reazione culturale a nulla”, perché in realtà “è stata solo un’anomalia”.
“I Måneskin ora si trovano in una posizione in cui Rush! devono presentare le domande che giustificano la loro popolarità: con tutto quello che sta succedendo nel mondo, non vorresti che la musica rock fosse di nuovo eccitante?”, questo un altro interrogativo posto dal giornalista, a cui però non risponderemo perché sarebbe giusto che ogni ascoltatore lo facesse. Magari da solo, nella sua stanzetta mentre ascolta l’album, oppure al bar con gli amici. Non su uno dei magazine più autorevoli, influenti e famosi del mondo. Così, per dire.
Fermo restando che questa non è assolutamente la prima critica che arriva alla band romana – basti considerare che, per citarne qualcuna, già il critico musicale e youtuber Anthony Fantano sul suo canale espresse diverse perplessità, così come anche il sito web statunitense Stereogum fece la stessa identica cosa sul boom di streaming della cover di Beggin – vale la pena soffermarsi su un punto: perché essere una band romana è una colpa? Parliamone.
Provenire da Roma, essere una band ed essere, nello specifico, una rock band, è una contraddizione in termini? Se volessimo parlare di “storia” lo sarebbe. Nel senso che la musica romana affonda le sue radici negli stornelli. Parliamo di circa 70 anni fa: erano gli anni ’50 e nella capitale si insidiarono – letteralmente tre filoni musicali: accanto al succitato, vi erano la serenata e la canzone drammatica. Stop. Non vi era alcuna traccia di rock. A quegli anni risale la genesi di Radiocampidoglio, che diede i natali – artistici, si intende – ad artisti del calibro di Claudio Villa, Mariam Boni, Giulia Jandolo e tanti altri.
Passò circa un decennio (anche un po’ di più) e arrivò la primissima evoluzione della canzone romana, grazie al Folkstudio, un iconico locale da cui emersero vari cantautori, tra cui Antonello Venditti, ma anche all’etichetta Rca, che divenne il fulcro della musica nazionale, non solo locale. Per intenderci, nello stesso periodo, nel mondo iniziarono a farsi largo band come gli Who, i Doors, i Led Zeppelin. E la chiudiamo qui.
Andando avanti, potremmo parlare degli anni ’70 e dei lavori dialettali di Sergio Centi, oppure dell’affermazione sulla scena di artisti come Franco Califano, i Vianella, Gabriella Ferri. Ma andiamo ancora più avanti e arriviamo negli anni ’90 (quindi, non tantissimo tempo fa): quella fu l’epoca in cui più che la musica in sé – intesa come direzione artistica – a spiccare erano i temi trattati, tutti forti (per quell’epoca, perché adesso sembrerebbero la sigla di Peppa Pig confrontati a quelli degli ultimissimi anni), basati su sesso, politica e chi più ne ha più ne metta.
Risale al ’91 la genesi del Festival della Canzone Romana, fondata da Lino Fabrizi, considerato ancora oggi il “precursore della canzone romana”, sulla cui scia si inserirono poi artisti del calibro di Maurizio Fortini, ma anche Daniele Silvestri, tanto per citarne un paio.
Possiamo poi passare alla fine degli anni ’90 e ai primi anni del 2000, fino ad arrivare ai giorni nostri: negli ultimi 20 anni (circa) si sono susseguite sulla scena musicale della capitale cantanti come Giorgia, Noemi e Paola Turci, tutte di stampo marcatamente pop (anche tendente al soul in alcuni punti). Come non menzionare anche ovviamente Alex Britti, Max Gazzé, Niccolò Fabi, Mannarino e, in epoca più recente, Ultimo, Carl Brave, Franco126, Fulminacci. Ma, anche qui, ahinoi, di rock non vi è traccia.
Per onore di cronaca non possiamo non aprire una parentesi anche sul filone hip hop romano, in cui Piotta la fa da padrone, accompagnato prima da Colle Der Fomento, Cor Veleno, al TruceKlan di Noyz Narcos e seguito poi da Gemello, Gemitaiz, Madman. Ovviamente anche da questo mondo quello del rock è lontanissimo anni luce. Possiamo trovarne dei cenni – nella sua “declinazione progressiva” – solo nella musica del Banco del Mutuo Soccorso. E poi basta.
Ma, volendo allargare la lente di ingrandimento e volendo parlare di tutto il Belpaese interamente, ci accorgeremmo immediatamente che è proprio tutto il territorio nazionale manchevole di una vera e propria tradizione rock. Ci perdoneranno Vasco Rossi – considerato da molti il re indiscusso italiano – e Ligabue se non ci permettiamo di accostarli a Kurt Cobain, Jim Morrison, Jon Bon Jovi ecc ecc. Come anche, allo stesso modo, ci perdoneranno Le Luci della Centrale Elettrica, gli Offlaga Disco Pax, Tre Allegri Ragazzi Morti, i Verdena, i Marlene Kuntz, gli Zen Circus se non ce la sentiamo di paragonarli ai Beatles, ai Rolling Stones, ai Pink Floyd. Perché no, non sono paragonabili e non solo per le sonorità proposte e per l’estetica, ma anche per la loro incapacità di superare i confini nostrani, arrivare oltreoceano, farsi largo, trovare la loro collocazione e restare immortali in tutto il globo. E comunque, anche se fosse, tutte questi succitati gruppi affondano le loro radici a partire dagli anni ’80 (e nessuna è romana, per essere precisi), ma prima cosa c’era? Nulla praticamente.
Il rock in Italia è l’eccezione, non è la regola. Per questo forse i Maneskin hanno trovato davanti a loro una strada già spianata, non hanno trovato ostacoli, hanno potuto correre incontrastati e arrivare direttamente negli USA, in cui sono riusciti comunque a farsi riconoscere e apprezzare. Almeno per un periodo. Che Rush! non sia piaciuto alla critica statunitense è chiarissimo: anche il Newyorker l’ha massacrato. Ma poco importa, perché la band almeno ci ha provato, ci è riuscita anche in molti sensi, è riuscita dove nessuno prima era riuscito, nonostante provenisse dall’Italia e, nello specifico, addirittura da Roma, in cui ad oggi rappresentano in sostanza un unicum assoluto.
Da un lato alcune cose che dice – anzi, scrive – Pitchfork sono anche vere: “i Måneskin sono qualcosa di molto più importante: un’alternativa” (in Italia lo sono, sono un’alternativa alla routine musicale tradizionalmente pop e basata sul cantautorato, che ultimamente ha iniziato a virare verso la trap e poco altro) e, soprattutto, il loro è “un atteggiamento retrò e lascivo che non sembra né cool né popolare, e quindi si oppone a ciò che è bello o popolare” (togliamo cool e bello, che sappiamo tutti che ciò che la bellezza è soggettiva, lasciamo però pure la parola popolare: in Italia il rock non lo è, quindi seguendo una logica loro lo dovrebbero essere. E infatti lo sono).
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