L’ultimo sondaggio Deloitte rivela che la maggior parte dei Millennials ha intenzione di lasciare il proprio posto di lavoro entro i prossimi due anni, ma sono davvero viziati e incapaci di accontentarsi o i giovani di oggi hanno delle buone ragioni per essere scontenti?
Dai discorsi dei politici, alle chiacchiere delle vicine di casa, ci siamo ormai abituati a sentir parlare di ragazzi che fanno fatica ad inserirsi nel mondo del lavoro, che sono perennemente insoddisfatti o addirittura choosy, secondo quella che è ormai diventata una proverbiale (quanto infelice) definizione, ossia dei piccoli viziati che si crogiolano senza far nulla nelle loro aspettative troppo alte.
Eppure il sondaggio Deloitte, pur rivelando che la metà dei Millenials è pronta a cambiare lavoro, non registra, tra le motivazioni, un compenso troppo basso o accordi contrattuali precari e intollerabili, ma ben altro. Cosa vogliono allora i Millennials e chi sono?
I Millennials sono i ragazzi nati tra il 1980 e il 2000, la cosiddetta generazione Y che presto è stata ribattezzata “generazione C”.
Le C che caratterizzano i giovani Millennials non sono poche: dalla C di connected o computerized, perché sono i primi ad aver vissuto in prima persona il cambiamento epocale portato dalla rete, alla C di community e collaboration, che descrive il perenne bisogno di condivisione di questa generazione.
Insomma, nulla a che vedere con il falso stereotipo che si tratta di giovani pigri, svogliati e interessati solo a come appaiono sui social.
Da Millennial potrei essere di parte, eppure c’è qualcosa di vero in queste definizioni: non siamo solo i primi ad aver sfruttato le potenzialità di una realtà iperconnessa, siamo anche i giovani che si rivedono nella C di change che identifica la nostra voglia di cambiamento; aperti a diversi punti di vista, siamo flessibili e curiosi. Non narcisi e individualisti ma (spesso fin troppo) interessati a condividere con gli altri tutto ciò che ci riguarda: parlare dei nostri sogni, mettere in comune le nostre esperienze e i nostri progetti è qualcosa che ci identifica, e sul lavoro si trasforma in coworking e spirito di gruppo.
Queste qualità positive, unite ad una forte ambizione, rendono la generazione Y attraente per qualsiasi datore di lavoro, eppure, stando all’ultimo sondaggio Deloitte, nessuno riesce a tenersi stretti i Millennials.
[didascalia fornitore=”deloiite”]Fonte: sondaggio Deloitte 2018.[/didascalia]
Il sondaggio Deloitte del 2018 si è rivolto a più di 10 000 giovani di 36 Paesi, e, in particolare, ad una specifica fascia di Millennials, quelli che oggi hanno tra i 24 e i 35 anni, che hanno un diploma di scuola superiore o universitario e un lavoro a tempo pieno. I più fortunati?
Eppure ciò che risulta da questa ricerca è che quasi tutti questi giovani sono pronti a lasciare ciò che oggi sembra così difficile ottenere.
In particolare il 43% dei Millennials intervistati e il 61% degli appartenenti alla generazione Z (che oggi hanno tra i 19 e i 23 anni), han dichiarato che prevedono di lasciare il loro lavoro nel giro di 2 anni, mentre un altro 28% lo farà entro i prossimi 5, insomma quasi tutti sembrano esser soddisfatti del proprio lavoro e pronti a rischiare pur di cambiare le cose.
[didascalia fornitore=”deloitte”]Fonte: sondaggio Deloitte 2018.[/didascalia]
La volontà di lasciare il posto di lavoro non deriva da pigrizia o dal non volersi accontentare di uno stipendio basso ritenendosi meritevoli di chissà quali riconoscimenti economici. I giovani danno forfait perché non credono nelle aziende in cui lavorano, non condividono la loro etica e non si sentono rappresentati.
Tutt’altro che choosy e viziati, i Millennials desiderano di più: vorrebbero che il loro tempo fosse destinato non, come molti pensano, ad accaparrarsi uno stipendio da capogiro con il minimo sforzo, ma a cambiare il mondo. Vorrebbero vedere che ciò che fanno può avere un impatto reale sulla società e sull’ambiente; sognano di raggiungere obiettivi più grandi, che non si riducano al semplice profitto economico.
Una generazione pronta ad impegnarsi, a sacrificare tempo e risorse ma che sembra esser totalmente incompresa e abbandonata a se stessa. Senza più alcuna fiducia nel fatto che chi li circonda stia operando in maniera positiva, i Millennials si dichiarano insoddisfatti dei propri leader, non solo politici, ma anche aziendali e questo sentimento si tramuta inevitabilmente in una resa (consapevole) di fronte ad una situazione scomoda a cui non sentono di appartenere e in cui è impossibile realizzarsi.
La maggior parte dei Millennials crede che in ambito lavorativo si debba dare più spazio alla creatività e all’innovazione. Certo, durante la ricerca di un impiego si riesce ad attrarre questi giovani promettendogli uno stipendio, anche se irrisorio, ma poi non è in base a questo elemento che un’azienda riesce a guadagnarsi la loro lealtà.
Bisognerebbe offrire più possibilità di crescita e di espressione, lavori più flessibili che riescano a mettere in luce le propensioni individuali, perché ci troviamo sulla via della meccanizzazione e molti dei lavori che conosciamo non esisteranno più in futuro. In base agli studi del World Economic Forum, pare che quasi tutti i bambini di oggi faranno lavori nuovi che per ora possiamo solo limitarci ad immaginare; è quindi necessario iniziare a pensare fuori dagli schemi, allontanandosi da logiche e dinamiche del passato, che non solo non funzionano più ma, come una coperta troppo corta, ci stanno scomode, e non ci fanno sentire nel posto giusto.
Essere aperti a una visione più fresca darà vita a nuove opportunità di cambiamento, oltre che di profitto, perché a dispetto di quanto si pensa non tutti i Millennials sono mantenuti da mamma e papà.
[didascalia fornitore=”altro”]Saran Kaba Jones, fondatrice e CEO di FACE Africa.[/didascalia]
Tra i giovani “viziati e pigri” ci sono anche dei miliardari che non hanno ereditato la loro fortuna; uno tra tutti, Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook e proprietario di un impero che si aggira intorno ai 50 miliardi di dollari.
Tra i Millennials più influenti e rivoluzionari c’è Simone Biles, la prima ginnasta ad essersi aggiudicata per tre volte consecutive il titolo di campionessa mondiale, c’è Saran Kaba Jones che è tornata nel suo Paese natale, la Liberia, per fare qualcosa di concreto con la sua vita ed è oggi la fondatrice di Face Africa, un progetto che fornisce accesso sicuro all’acqua potabile nelle zone rurali del suo Paese.
Ragazzi che si sono dati da fare, con tanti sacrifici e che hanno messo la loro creatività e i loro sogni prima degli interessi economici; giovani che han voluto realizzare qualcosa di diverso e innovativo e si sono concentranti su come, a loro modo, potessero cambiare il mondo.
La nostra società sta già soffrendo la famosa “fuga dei cervelli”, una corsa all’estero in cerca di migliori prospettive di vita, perché allora non cerchiamo di tenerci stretti quelli che restano?
Non tutti i Millennials che ci circondano diventeranno i nuovi Mark Zuckerberg o le nuove Simone Biles ma se la società e le aziende se li lasciano scappare, se non viene offerto loro uno spazio in cui esprimersi, crescere e dar vita a grandi progetti, nel giro di 2 o al massimo 5 anni, saranno loro a lasciare il posto in cui si trovano ora e noi non faremo parte di quei cambiamenti che sognano e che, forse, riusciranno a realizzare.
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