Ironia amara quella utilizzata per l’assegnazione del premio IgNobel 2020, un riconoscimento per le ricerche più curiose e divertenti, ma altrettanto delicato quando la nuova categoria inserita quest’anno è quella sul coronavirus. Proprio per la gestione dell’emergenza, sono stati “premiati” i principali leader delle nazioni mondiali: dal presidente statunitense Donald Trump, al leader del Brasile Jair Bolsonaro, dal presidente russo Vladimir Putin, al premier britannico Boris Johnson.
Ognuno di questi leader si è messo in evidenza per le proprie dichiarazioni e, talvolta, per un’apparente mancanza di senso responsabilità: dalla superficialità riservata al tema, alla diffusione di fake news. Un argomento come il coronavirus, però, non può che essere trattato “con le pinze”, dato che il virus ha coinvolto tutti gli Stati del mondo e ha causato la morte di centinaia di migliaia di persone.
Come detto, un ruolo di primo piano nell’assegnazione dei premi IgNobel 2020 è stato riservato ai leader mondiali proprio per la gestione della pandemia di coronavirus. Un evento del tutto eccezionale che ha messo in luce quali siano davvero le abilità di un leader nel governare il suo Paese. Diverse sono state le risposte al diffondersi del virus che ha causato – purtroppo – centinaia di migliaia di morti e milioni di contagi in tutto il mondo.
Il riconoscimento IgNobel viene assegnato dal 1991 a quelle ricerche che si caratterizzano per la loro stravaganza. Il premio ai leader mondiali, tuttavia, è stato assegnato per “aver usato la pandemia di Covid-19 per insegnare al mondo che i politici possono avere un effetto più immediato sulla vita e sulla morte di quello di scienziati e dottori“. Ma come è stata gestita davvero quest’emergenza?
Non solo Trump degli Usa, Bolsonaro del Brasile, Putin della Russia e Johnson del Regno Unito; ma anche Narendra Modi dell’India, Andrés Manuel López Obrador del Messico, Alexander Lukashenko della Bielorussia, Recep Tayyip Erdogan della Turchia e Gurbanguly Berdimuhamedow del Turkmenistan.
Andiamo con ordine. Negli Stati Uniti, il presidente americano Donald Trump ha dapprima sottostimato l’emergenza, arrivando a definire il Covid come una semplice influenza. Nel momento in cui, però, il contagio ha raggiunto anche il suo Stato, si è visto costretto a seguire le direttive dell’immunologo Fauci (con il quale comunque è nato uno scontro che si protrae da mesi).
Anche la più potente nazione al mondo si è dovuta fermare a causa della pandemia. Pochi giorni fa la notizia di un contagio alla Casa Bianca ha scosso i vertici del potere americano e ha destato scalpore in tutto il mondo. In particolare, proprio Donald Trump aveva da poco annunciato che gli Usa sarebbero stati i primi ad avere a disposizione un vaccino (forse già da fine ottobre secondo il presidente) e a distribuirlo in tutto il mondo. Lo stesso presidente, comunque, si era esposto in prima persona in merito alle possibili cure contro il Covid-19, arrivando persino a consigliare le iniezioni di idrossiclorochina come cura al Covid, causando un disastro per la salute dei suoi cittadini.
Vladimir Putin ha gestito una pandemia che è arrivata in Russia con qualche mese di ritardo sull’Europa. Tuttavia, guardando alle mosse dei suoi colleghi del Vecchio Continente, anche il leader russo aveva disposto misure contenitive per contrastare la diffusione del Covid-19.
Sul vaccino, invece, Putin ha preso una decisione forse troppo frettolosa, annunciando che il primo sarebbe stato prodotto proprio dalla Russia e in tempi davvero inspiegabili. Lo “Sputnik V” sarebbe entrato in produzione da settembre 2020 e la distribuzione nel mondo avrebbe preso il via da novembre 2020. Tuttavia, l’Oms ha invitato la Russia a seguire con cautela la procedura per testare la reale efficacia e sicurezza del vaccino stesso. I dubbi sulla reale scientificità dello Sputnik V sono ancora molti, anzi troppi per poterlo testare sulle persone umane. In gioco ci sono le vite di milioni di persone.
Tra le nazioni mondiali maggiormente segnate dalla pandemia di coronavirus c’è anche il Brasile, che ha scontato troppi contagi. Il presidente Bolsonaro – anche lui risultato positivo al Covid – non ha da subito preso con consapevolezza la malattia. Confrontando il Covid all’Hiv, diceva, “la maggior parte delle persone sieropositive viene curata e la vita va avanti. E sarà così anche con il coronavirus”. Negando sin da subito che il coronavirus potesse davvero contagiare la popolazione, si è aggirato per settimane senza utilizzare la mascherina in vari luoghi del Paese. “Mi dispiace per tutti i morti. Ma andiamo avanti con le nostre vite e cerchiamo un modo per cavarcela rispetto a questo problema”.
Fino a quando il virus lo ha colpito e costretto in quarantena per 20 giorni. Anche dopo la guarigione dal coronavirus, Bolsonaro ha continuato a sostenere che le chiusure sarebbero state peggiori della malattia. Inoltre, scherzando in una diretta televisiva, ha detto: “Ho la muffa nei polmoni dopo 20 giorni a casa“. Riguardo al vaccino, infine, non intende obbligare nessuno a proteggersi, mentre promuove l’utilizzo dell’idrossiclorochina per curarsi dal Covid-19.
Notizia di oggi è il probabile ritorno del lockdown nel Regno Unito, dove i casi di contagio da coronavirus sono aumentati drasticamente nelle ultime settimane. Era marzo quando il premier britannico Boris Johnson annunciava che le scuole sarebbero rimaste aperte, così come le attività commerciali e gli uffici. L’obiettivo era quello di raggiungere l’immunità di gregge nel Regno Unito e vedere il 60% della popolazione contagiato dal virus.
Poche settimane dopo, però, il premier britannico si è scoperto positivo al Covid e ha invitato tutte le famiglie a restare in casa. Da qui è partita l’escalation verso il lockdown e l’introduzione di misure rigide per contrastare la diffusione dell’infezione. Tra queste anche lo spettro di una nuova chiusura del Paese.
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