Il Covid continua a essere sempre presente nella popolazione, anche se in forme diverse rispetto a prima, data l’insorgenza delle diverse varianti che si stanno diffondendo. Un recente studio, però, ha evidenziato un particolare non di poco conto: il virus aumenta la probabilità di avere problemi all’apparato cardiovascolare.
Che il Covid potesse essere correlato in qualche modo a problemi cardiaci lo avevamo compreso, ma forse nessuno poteva immaginare che questo rapporto fosse così stretto. Un team di ricercatori britannici ha dimostrato – dati alla mano – che chi ha contratto l’infezione vede aumentare di molto le possibilità di avere problemi cardiaci di diverso genere e natura.
C’è un dato di cui si discute troppo poco che ha a che fare con il Covid: il suo legame con problemi cardiovascolari. A parlarne finalmente, sottolineando quale sia la vera relazione tra il virus e il cuore, sono stati i ricercatori britannici dell’Università Queen Mary di Londra, che hanno condotto uno studio pubblicato poi sulla rivista Heart.
Il dato che emerge dai loro studi è abbastanza allarmante: chi ha avuto il Covid rischia di avere infarti, aritmie e simili soprattutto nel primo mese dopo l’infezione acuta (fermo restando che questo resta anche dopo, solo che progressivamente diminuisce sempre di più).
C’è qualche fattore che contribuisce a rendere l’infezione così pericolosa per il cuore? Sì, nel senso che il rischio aumenta soprattutto tra chi è ricoverato, quindi ha avuto il virus in forma più severa. Ma chi resta a casa non è comunque esente da pericoli, a prescindere dall’eventuale vaccinazione e, soprattutto, a prescindere da eventuali fattori di rischio, come ipertensione, colesterolo alto, diabete.
Per effettuare lo studio comunque il team di scienziati si è basato sulle informazioni della UK Biobank, la banca dati che tiene traccia della salute dei partecipanti nel tempo.
Gli studiosi hanno analizzato le informazioni inerenti lo stato di salute di 53.613 partecipanti. Di questi, 17.871 hanno avuto il Covid durante il primo anno dallo scoppio della pandemia, mentre gli hanno hanno dato vita al cosiddetto gruppo di controllo. La maggior parte erano comunque uomini, siccome sappiamo che sono loro a sviluppare più frequentemente problemi cardiaci.
Tra le persone che hanno contratto il virus, circa 14.000 non sono state ricoverate, 2.701 sono finite in ospedale per via dell’infezione e 1.000 circa, invece, sono state ricoverate, ma per altre malattie. In ogni caso, lo stato di salute è stato tenuto sotto osservazione per circa cinque mesi mediamente.
Quello che è emerso è sorprendente (ma non in positivo di certo): chi era stato ricoverato in ospedale vedeva aumentare di ben 27 volte le probabilità di sviluppare TEV (tromboembolismo venoso), 21,5 quelle di avere uno scompenso cardiaco, 17,5 le possibilità di avere un ictus, 15 volte quello di sviluppare fibrillazione atriale, 14 volte pericardite e 10 volte un infarto.
E non finisce qui, perché anche chi era riuscito a restare a casa – quindi verosimilmente aveva avuto il Covid in forma meno grave – ha visto comunque crescere il rischio di avere problemi all’apparato cardiovascolare. Tra questi, vi è soprattutto il tromboembolismo venoso, che può insorgere con una probabilità di tre volte superiore.
Sempre secondo gli studiosi a essere cruciali sono soprattutto i primi 30 giorni: qui il pericolo è più alto, soprattutto per chi è stato ricoverato. Ma, come abbiamo anticipato, trascorso il primo mese non diventa nullo: continua a essere comunque abbastanza elevato quello di avere insufficienza cardiaca, fibrillazione atriale, TEV, pericardite.
Lo studio in ogni caso non ha tenuto conto né di una possibile reinfezione, né del ruolo dei vaccini, né tantomeno della varianti che si sono presentate dopo. Come hanno evidenziato gli studiosi comunque: “I risultati evidenziano l’aumento del rischio cardiovascolare degli individui con infezione pregressa: è probabile che sia maggiore nei paesi con accesso limitato alla vaccinazione e quindi una maggiore esposizione della popolazione al Covid-19. Tali rischi sono quasi interamente limitati a quelli con malattie che richiedono il ricovero in ospedale e più alti nel primo periodo (primi 30 giorni) dopo l’infezione”.
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