“L’ho uccisa io. L’ho uccisa per la mia dignità e per il mio onore”. Queste erano state le prime parole pronunciate da Shabbar Abbas un mese dopo l’omicidio della figlia diciottenne, Saman Abbas, ad un parente in Italia.
Mentre lui, con la moglie Nazia, era già fuggito in Pakistan. Un padre, quindi, che si addebitava tutte le responsabilità per la morte della figlia. Ma che contraddicono quanto riferito da un testimone chiave della vicenda, il fratellino di Saman. Che, fin da subito, ha raccontato agli inquirenti che ad uccidere Saman sarebbe stato lo zio, Danish Hasnain. Non solo perché lo avrebbe visto allontanarsi con lei e metterle una mano sulla bocca. Ma anche perché, la stessa notte nella quale si è consumato l’omicidio, lo zio si sarebbe messo a dormire accanto a lui e gli avrebbe detto di stare tranquillo perché tanto ormai sua sorella non c’era più.
“Ho indicato il luogo dove era Saman perché vorrei che ora trovasse il suo posto, dov’è ora, assieme ai miei genitori”. Queste, invece, sono le parole pronunciate proprio da Danish all’ultima udienza estiva del processo svoltasi il 14 luglio. Qualche mese fa, lo ricordiamo, era stato proprio lui ad accompagnare gli inquirenti sulla scena del crimine e ad aver fatto ritrovare il corpo della nipote. Da quel momento in poi, però, l’uomo ha sempre detto di essersi limitato a nasconderne il corpo. Ma di non essere lui l’autore del delitto. Il dibattimento ed il processo riprenderà a settembre. Con un’importante svolta per quel che attiene l’accertamento della verità. Il Pakistan ha autorizzato l’estradizione di Shabbar, mentre Nazia resta ad oggi sempre latitante.
Saman viveva una doppia vita che le causava profonde sofferenze: italiana in classe e sui social, pakistana in famiglia. Voleva ribellarsi, essere indipendente ed essere libera di scegliere chi amare. Eppure, è stata tradita da chi avrebbe dovuto più di tutti proteggerla e farla sentire al sicuro: la sua famiglia. Capite perché non è così importante conoscere chi, in questa drammatica storia, si è sporcato le mani? Certo, ad oggi, sapere chi materialmente l’ha uccisa resta prima di tutto un mistero. Tuttavia, un peso fondamentale ha, ed avrà, sicuramente la testimonianza resa fin da subito dal fratello della diciottenne. Si è comunque trattato di un omicidio concordato a tavolino. Con l’obiettivo di lavare con il sangue l’onorabilità lesa del Clan Abbas. Dunque, tutti ne devono rispondere allo stesso modo.
In altra ottica, in verità, non può negarsi come entrambi, Shabbar e Danish, padre e zio, abbiano dato negli ultimi due anni delle versioni camaleontiche. Hanno dichiarato sempre tutto ed il contrario di tutto. Con il chiaro intento di raggirare prima gli inquirenti e poi anche chi li dovrà giudicare.
Quel che appare evidente è che entrambi hanno avuto un ruolo chiave ed equiparato nella vicenda. A prescindere da chi abbia avuto la regia. Tutti, inclusa la madre Nazia, sono gli assassini di Saman.
I genitori di quest’ultima hanno infatti barattato la loro figlia per l’onore. Manifestando un totale disprezzo per la vita che loro stessi avevano messo al mondo e per la sua dignità. Non gli è bastato ucciderla, ma hanno dovuto anche privarla della sua dignità di donna. Denunciando ancora una volta l’esistenza di un sistema feudale che tratta le figlie femmine come oggetti di proprietà. Alla stregua degli animali. Come se fossero merce di scambi. E con il solo intento di consumare un matrimonio combinato. Chi osa ribellarsi, poi, dovrà pagare con il sangue le conseguenze.
Una storia, quella della giovane ragazza pachistana, che sembra costruita per fare da sfondo ad un’oscura follia. La follia di un patriarcato che si intreccia con l’integralismo religioso e che passa attraverso il delitto d’onore. Già, perché la morte di Saman non può essere annoverata tra i femminicidi. Quelli sono compiuti da partner o da ex partner. Nel caso del delitto d’onore siamo oltre. Siamo nel terreno di morti che possono essere causate anche per mano di altri componenti della famiglia. Zii, fratelli, cugini.
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