Carla Simons è stata una scrittrice, giornalista e traduttrice ebrea. Ha vissuto ad Amsterdam, per poi essere deportata ad Auschwitz-Birkenau. Qui è morta nel 1943, ma di lei restano i suoi scritti, che raccontano l’anno precedente e che ci fanno vedere il mondo da un altro punto di vista.
Quello che ha fatto Carla Simons è stato molto più che scrivere e raccontare quello che stava accadendo nel mondo ai tempi del nazismo: la scrittrice, giornalista e traduttrice è riuscita a colorare con toni pastello un’epoca dipinta solo con pennellate cupe, è riuscita a tramutare in giorni di sole anche quelli di pioggia, a trovare il modo di godersi la vita in un periodo in cui vi erano solo morte e distruzione. Il suo diario – pubblicato con il titolo La luce danza irrequieta – racchiude più che altro un grande insegnamento di vita.
3 agosto 1943. Carla Simons, scrittrice, giornalista e traduttrice – specializzata in lingua e cultura italiana, ma con una propensione anche per l’inglese e il francese – ha 40 anni, è ebrea, vive ad Amsterdam, la stessa città di Anna Frank. Con lei, però, in comune non avrà solo la città di residenza: le due hanno in comune anche lo stesso destino. 3 agosto 1943, dicevamo. Carla fino a quel momento era riuscita a nascondersi e se ci era riuscita il merito era tutto di Romano Guarnieri, il suo maestro e compagno di vita, che l’aveva sempre protetta, nel vero senso della parola.
Carla aveva vissuto fino a quel momento osservando quel mondo che stava crollando in mille pezzi dalla sua stanza in cui risuonavano continuamente note musicali mentre fuori c’era solo il rumore delle bombe, in cui le era concesso leggere, mentre molti, chiusi nei campi di concentramento, gli ebrei potevano solo piangere, in cui poteva guardare i fiori, la natura e tutto quello che di bello c’era da vedere, mentre fuori c’erano ormai palazzi, edifici, strade distrutte. “A volte il sentimento della vita mi inonda con tale intensità che quasi penso di soccombere a esso”, scrive a marzo del 1942, ignara di tutto che sarebbe successo un anno e mezzo dopo circa. Del resto, quello era ancora il momento di sperare, anche se c’era poco in cui credere in quell’epoca e, soprattutto, c’erano pochi motivi per credere nell’umanità.
Carla vuole ancora credere in un mondo migliore, fatto di letteratura, di musica, di bellezza. Trova rifugio in una sonata di Franz Schubert eseguita al piano da Imre Ungar, si sente rinascere – anzi, sente “la vita che esitante comincia a gonfiarsi” – ogni volta che vede davanti a lei un fiore, prende quello che legge e lo trasforma in una serie di parole capaci di smuovere “gli assi più profondi” di sé stessa.
Continua a farlo nonostante il ritrovamento dell’arpa di Rosa Spier abbandonata sul palco, nonostante le parole del bambino che chiede alla nonna se i tavolini del bar sono vietati agli ebrei, nonostante le sfilate dei soldati tedeschi, di cui riesce ancora a pensare “io sono mille volte più libera. Nonostante la mia stella gialla”.
Continua a farlo nonostante si renda conto che tutto intorno a lei sta ormai precipitando. Nel mondo vi sono solo “orrore, arresti, retate, follia, suicidi”, nessun ebreo può entrare in un edificio pubblico, può sedersi su una panchina nel parco, può entrare in un negozio, male persone urlano dalle finestre delle loro case “Portano via gli ebrei” e basta affacciarsi di sera per vedere puntualmente intere famiglie partire, “con la valigia e il fagotto”, “con un bambino per mano o in braccio”. Sopportare l’idea che i più piccoli debbano assistere a quello scempio è dura, ma nulla sembra turbare troppo la Simons, che continua a osservare la vita che scorre dal suo rifugio sicuro, mentre contemporaneamente ne vive un’altra fatta solo di passioni, in cui non esistono la guerra, lo sterminio, la deportazione. Questo per lei è l’antidoto alle atrocità di quell’epoca: risponde a tutto con l’amore. Che sia questo per un’altra persona, per un brano suonato al pianoforte oppure semplicemente per la vita, poco cambia.
Arriva poi dicembre del 1942. La situazione sta precipitando sempre di più. Nessuno sembra essere salvo, nessuno è davvero al sicuro in nessun luogo. Almeno, nessun ebreo lo è da tempo ormai. In quel momento storico a essere colpiti sono soprattutto “i malati e i disabili”. Forse fino ad allora erano stati risparmiati perché ritenuti più deboli, ma c’erano sempre i bambini, esseri fragili, innocenti, delicati a essere presi di mira, non c’era comunque alcuna pietà per nessuno.
Carla, così, inizia a prepararsi: sa che quel viaggio potrebbe trovarsi a compierlo anche lei. Quale sarà la destinazione? Forse la Polonia, forse arriverà “molto più lontano o forse più vicino”. Non può sapere quale sarà la sua tappa finale, ma sa che, qualora dovesse partire, non tornerà più indietro. Ed è questo che conta. “La fine dev’essere all’orizzonte: tutti i sintomi lo indicano”, scrive, facendo quello che le riesce meglio: osservare la realtà, riportarla nero su bianco, tradurla in emozioni.
La Simons riesce a vedere comunque il lato positivo almeno fino al maggio 1943. Poi di lei si sono perse le tracce, ma è la storia a raccontarci quello che le è successo davvero. Sappiamo tutte queste cose grazie ai suoi stessi scritti: La luce danza irrequieta è il titolo della sua opera (a cura di Francesca Barresi, tradotto da Francesca Barresi e Lisa Visani Bianchini, edito da Edizioni di Storia e Letteratura) che lei stessa affidò a Guarnieri e che fu pubblicata inizialmente – nel 2014 precisamente – solo nei Paesi Bassi.
Fino ad ora, il diario in Italia era inedito. Una copia, però, pare sia poi arrivata tra le mani di Romana Guarnieri, figlia di Romano, nonché custodite presso l’istituto Veritatis Splendor della fondazione Lercaro di Bologna e lì è cambiato tutto: lo ha letto, si è innamorata di quelle parole – nonostante verosimilmente non sia stato affatto facile per lei sapere che la donna che le aveva scritte era stata la compagna del padre subito dopo la separazione dalla madre – aveva appuntato alcune note e, come ha raccontato Francesca Barresi, aveva scritto su un post-it: “Bellissimo. Da pubblicare anche in Italia”.
In ogni caso sono bastate 150 pagine circa, tutte intrise da una mostruosità disumana, mista sempre alla speranza, a raccontare ciò che accadde tra il giugno del 1942 e il maggio del 1943. Come abbiamo anticipato, quello che è accaduto dopo ce lo ha detto la storia.
Carla Simons nel maggio del 1943 smette di scrivere, di racchiudere i suoi pensieri e trasferirli sul suo diario. L’ultima sua annotazione è un pezzo tratto dal Vangelo di Luca, che recita così: “Ed Egli si separò da loro a circa un tiro di sasso, si inginocchiò e pregò, dicendo: ‘Padre, se vuoi, allontana da me questo calice, tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà’”. Con il senno di poi, sembra che quella sia stata quasi una “resa” alla crudeltà umana, all’abominio che ormai aveva invaso tutto il Pianeta, al suo destino semplicemente. Sembra quasi che Carla, dopo essersi nascosta per mesi e mesi, avesse allora capito che ormai per lei non c’era più scampo, che il tempo di fuggire era finito. E, sempre con il senno di poi, lo ha capito pochissimo prima dell’inizio della fine.
Arriviamo al 3 agosto 1943. Come abbiamo anticipato, a proteggerla era stato per tutto quel tempo Romano Guarnieri, ma alcune intorno a loro erano cambiate nel frattempo: i nazisti avevano occupato i Paesi Bassi, il fascismo era appena caduto e così la Simons viene arrestata. Grazie al suo compagno, però – che aveva sempre avuto ottimi rapporti con i diplomatici italiani – viene rilasciata il giorno dopo. Si sarebbe dovuta trasferire in Italia e qui avrebbe dovuto iniziare una nuova vita, eppure qualcosa va storto.
Passa un mese circa. La Gestapo preleva nuovamente Carla: questa volta l’ordine di cattura arriva direttamente da Adolf Eichmann in persona, l’uomo considerato uno dei maggiori responsabili operativi dello sterminio degli ebrei. Questa volta non c’è possibilità di scelta: la Simons arriva ad Auschwitz-Birkenau e lì, neanche tre mesi dopo – il 19 novembre precisamente – muore.
Di lei comunque oggi resta il suo racconto, il suo coraggio, il suo essere stata capace di sperare anche quando ormai la speranza per molti era un vago ricordo. Il suo modo di amare la vita, di godere di ciò che di bello le poteva offrire anche in un periodo in cui ormai di bello c’era ben poco intorno a lei, di costruirsi una realtà “parallela” in cui le passioni la facevano da padrone, di sicuro non ha potuto cambiare le sue sorti allora, ma oggi rende il mondo un posto migliore, perché ci ha dato un grande insegnamento di vita: possiamo decidere noi come affrontare le cose che ci capitano e, anche le peggiori, possono nascondere un lato positivo, basta guardarle dalla giusta prospettiva e saperle vedere.
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