Il distretto scolastico di Seattle ha deciso di denunciare le aziende che posseggono i principali social, per cercare di ridurre i casi di problemi mentali nei giovani, secondo loro acuiti proprio dalle piattaforme.
I social possono fare male, fino ad arrivare addirittura ad uccidere. E no, non stiamo parlando di dark web, ma di piattaforme apparentemente innocue (anche se ormai sono pochissimi che le vedono così), come Facebook, Instagram, Snapchat et similia. Un adolescente che naviga ogni giorno in rete, si imbatte su contenuto che istigano all’odio, vede foto di persone che rispecchiano canoni irraggiungibili senza il chirurgo plastico e Photoshop, verosimilmente alla fine della giornata saranno turbati da quello che vedono. Ci vuole una massiccia dose di forza, equilibrio e stabilità mentale per poter trascorrere del tempo su una piattaforma qualsiasi e non lasciarsi minimamente turbare dai suoi post, tutte cose che a 14, 15, 17 anni probabilmente è difficile avere. E allora sentiamo di adolescenti i cui problemi mentali stanno crescendo a dismisura negli ultimi anni, fino ad arrivare addirittura a casi di suicidio. Questo dato non dovrebbe restare invariato: c’è bisogno di una soluzione urgente. Ma dove non sono arrivate le leggi e le istituzioni, è arrivato il distretto scolastico di Seattle, che ha pensato bene di denunciare le varie aziende che controllano i social più diffusi.
Un intero distretto scolastico si è rivoltato contro Meta (che possiede Facebook, Instagram, WhatsApp), Google (“genitore” di YouTube), TikTok (l’azienda cinese dietro la piattaforma ByteDance) e Snap, la società che controlla SnapChat. Non è una fake news, ma è quanto accaduto a Seattle, la città statunitense che tra le altre cose ospita colossi come Amazon e Microsoft.
Se volessimo osservare il fenomeno al microscopio, vedremmo orde di insegnanti preoccupati per i loro alunni, inebetiti – passateci il termine – dai social. Adolescenti, ragazzini neanche maggiorenni che trascorrono ore ed ore davanti a uno schermo, che preferisco navigare in rete anziché uscire e socializzare, vivendo la vita vera.
Questa immagine così apparentemente “banale” perché ormai è entrata nell’immaginario comune come “normale”, in realtà nasconde probabilmente un mondo intero, fatto di social che ci hanno fatto credere di poter essere vicini anche se siamo lontani, facendoci dimenticare quale sia la vera vicinanza. E per i nati entro i primi anni ’90 è davvero difficile immaginare come la vita possa essere ridotta a questo e gli adolescenti di oggi non sappiamo cosa significhi incontrarsi nel cortile sotto casa nel pomeriggio per giocare a calcio tutti insieme perché era quello l’unico modo per comunicare e stare insieme.
Probabilmente anche il distretto scolastico di Seattle – che comprende un centinaio di scuole per un totale di circa 50 mila ragazzi e ragazze – avrà pensato che i ragazzi non possono e non devono vivere in questo modo. E allora cosa ha fatto? Ha deciso di passare ai fatti, facendo scendere in campo addirittura la legge.
Ecco che quindi è comparsa una denuncia di ben 91 pagine, in cui si legge chiaramente: “Gli imputati hanno sfruttato con successo i cervelli vulnerabili dei giovani, agganciando decine di milioni di studenti in tutto il Paese attraverso un circuito vizioso di risposte positive sui social media che porta all’uso eccessivo e all’abuso delle piattaforme. Peggio ancora”. (…) Il contenuto che gli imputati propongono e indirizzano ai giovani è troppo spesso dannoso e teso allo sfruttamento per interessi economici”.
Ovviamente non possiamo riportare quasi 100 pagine di documento, ma riassumendo quello che si evince in quelle successive al succitato testo è che le aziende incriminate avrebbero “avvelenato i giovani”, rendendoli praticamente dipendenti dai social e rendendo alle scuole difficili adempiere al loro compito di educare perché ormai i ragazzi hanno problemi troppo grandi da affrontare che distolgono la loro attenzione dallo studio, acuiti proprio dalle piattaforme.
In effetti – dati scientifici alla mano – non possiamo assolutamente ritenere infondate le accuse del distretto. Basti pensare che di recente una nuova revisione della letteratura scientifica condotta dalla Società Italiana di Pediatria (pubblicata sulla rivista scientifica International Journal of environmental research of pubblic health), prendendo in esame 68 lavori scientifici condotti dal 2004 al 2022, ha analizzato i rischi correlati all’uso dei social media negli under 18, in particolare nel pre e post Covid. Alla fine ciò che è emerso è che vi è una forte correlazione tra l’utilizzo delle piattaforme e la salute mentale dei giovani. Basti pensare che alcuni dei problemi ritenuti meno gravi sono disturbi alimentari, cyberbullismo, problemi legati alla sfera sessuale, problemi comportamentali, distorsione della percezione del proprio corpo. Più o meno allo stesso risultato è arrivato anche un altro studio pubblicato sul Journal of Affective Disorders Reports.
Il fenomeno pare essersi acuito durante la pandemia, ma anche prima non era assente. Basti pensare che una ricerca condotta nel 2019 – quindi pochi mesi prima dell’arrivo del Covid – dall’Università di Montreal e pubblicata sulla rivista Jama Pediatrics già aveva fornito più o meno gli stessi risultati e cioè che i social minavano alla salute mentali dei più giovani, portando poi a fenomeni anche estremi. E proprio a questo proposito, tornando alla peculiare ma significativa, non a caso questa arriva proprio dopo un biennio (2021, 2022) in cui diverse famiglie statunitensi già avevano intentato cause contro i social e pare che una decina di queste (se non di più) siano legate addirittura a casi di suicidio.
Qui dobbiamo aprire un’altra parentesi. Chi non ha sentito parlare circa un anno e mezzo fa dei cosiddetti Facebook Files (chiamati anche “Facebook Papers”)? Per chi non lo sapesse, questo termine deriva da una lunga inchiesta condotta al Wall Street Journal e basata quasi esclusivamente su documenti interni dell’azienda, divulgati da una certa Frances Haugen, un’ex dipendente di Mark Zuckerberg, il “padre” della piattaforma.
In sostanza, quello che si evinceva è che da un lato Facebook non era affatto uguale per tutti, nel senso che aveva una lista di cosiddetti utenti VIP, che costituivano circa sei milioni ed erano completamente esentati dalle normali policy di moderazione (il programma d’immunità si chiama XCheck). Ma non solo in realtà, perché pare che nel 2018 l’algoritmo sia cambiato e sia nata una macchina alimentata da odio e indignazione degli utenti dato che pare che Meta, per aumentare i suoi profitti, abbia premiato contenuti divisivi soprattutto.
Ma non finisce neanche qui, perché il dato forse più grave in assoluto è che pare che Facebook fosse perfettamente consapevole che Instagram avesse dei gravi effetti negativi sul benessere psicologico dei suoi utenti, soprattutto dei più giovani, su cui generava e genera una scarsa autostima, che a sua volta può portare a problemi anche gravissimi, ma nonostante ciò non ha mai fatto nulla per porvi rimedio. E ancora, un altro dato che si evince è che circa il 32% delle adolescenti che non si sente a suo agio con il suo corpo ha confermato che utilizzare Instagram le fa sentire ancora peggio.
L’inchiesta in realtà era lunghissima e ricca di elementi che rendono la piattaforma ben più “oscura” da quello che sembra, ma i dati salienti che riguardano gli adolescenti sono questi.
(Anche) per questo, il Congresso ha tenuto diverse udienze. Il risultato? Instagram ha introdotto i controlli parentali sull’app e al contempo sono state avviate indagini. Il problema però è che la linea di difesa delle aziende – basata sul Communications Decency Act, cioè il primo tentativo degno di nota di regolamentare il materiale pornografico su Internet – si è sempre trincerata dietro l’immunità dai reclami su contenuti pubblicati dagli utenti. Tradotto, Meta e le sue “colleghe” si sono sempre ritenute non responsabili di ciò che le persone pubblicano. Anche Biden è intervenuto sull’argomento (durante il discorso sullo Stato dell’Unione) e in quell’occasione aveva chiesto al Congresso di “ritenere le piattaforme di social media responsabili dell’esperimento nazionale che stanno conducendo sui nostri figli a scopo di lucro”. Eppure nulla è cambiato.
Ecco perché il distretto di Seattle ha pensato di intervenire, colmando questo effettivo vuoto normativo che a quanto pare non tutela affatto i ragazzi. Ecco che infatti nella denuncia si legge chiaramente: “Il querelante non sostiene che gli imputati siano responsabili per ciò che terze parti hanno pubblicato sulle piattaforme, ma piuttosto per la condotta stessa degli imputati, che raccomandano e promuovono attivamente contenuti dannosi per i giovani, come messaggi a favore dell’anoressia e che provocano disturbi alimentari”.
Inoltre pare che tra il 2009 e il 2019 sia stato registrato un incremento del 30% di casi di giovani che hanno manifestato segni di ritiro sociale a causa di internet. Ecco perché il distretto chiede al tribunale di far cessare questa attività “di disturbo alla popolazione”, di risarcire i danni alle famiglie e di pagare dei corsi di prevenzione e il trattamento per l’uso eccessivo delle varie piattaforme. E chissà che finalmente qualcosa si inizierà a muovere. Considerando che, solo in Italia, pare che ormai il 95% degli adolescenti usi abitualmente i social,
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