La deriva della Juventus dopo la pesante sconfitta in Champions League contro il Maccabi Haifa ha sollevato un polverone ancora più tossico su Massimiliano Allegri e i bianconeri. Sotto attacco sono finiti Andrea Agnelli, la dirigenza e il gruppo squadra, senza distinzione. La parola “vergogna” è quella più usata, per primo dal presidente bianconero, ma è un concetto che ha una storia millenaria e che ora torna utile per descrivere la situazione dei bianconeri.
Non è e non può essere questa la Juventus che era nei piani di Agnelli e di Allegri. La squadra è irriconoscibile, imbrigliata nella sua stessa genesi e progettazione finale, in quei campioni presi tra foto e sciarpe al cielo per vincere subito e che, invece, sembrano andare ognuno per conto proprio, isolati e senz’anima. Ma più che indolenza, che nell’etica sportiva a certi livelli ci sta come i cavoli a merenda, potrebbe essere ‘colpa’ di una cultura alla base della nostra civiltà e di quelle che furono.
La Juventus dell’apocalisse è in crisi d’identità
Ciò che è successo ieri tra Maccabi Haifa e Juventus ormai lo sanno anche i muri, per l’eco che sta avendo e per la rabbia sociale che ha generato. Una sconfitta per 2-0 storica, per carità, e che non può avere alcuna attenuante tecnica, tattica, strategica.
Perché la Vecchia Signora così raggrinzita, povera e imballata in un Alzheimer così profondo di trionfi e coppe la si era vista raramente. Ma più che i risultati c’è da andare a fondo e studiare il DNA, quella massa primordiale, meravigliosamente ordinata nel suo disordine, genetica e che ci caratterizza come esseri umani. L’essere speciali che tutti rincorrono e che avrebbero già insito nella loro natura e per loro stessa definizione.
E chi meglio della Juventus e della famiglia Agnelli può insegnarlo nel calcio? L’eleganza, il fare borghese, le cravatte con il nodo giusto e l’abbinamento corretto, stile appunto e parole pesanti e ben dosate, quelle dei potenti. I bianconeri, storicamente, sono questi e quelli che rigano dritto verso le vittorie, senza se e senza ma. Sono quelli delle personalità forti, della leadership, dei “fino alla fine” pronunciati come grido di battaglia agonistica e tradotti in un’instancabile e orgogliosa tenacia, praticamente insuperabile. Un po’ di francese in un cuore tutto italiano, come un cocktail che ha quel retrogusto sofisticato e unico che diventa iconico.
Tutto sembra smarrito in questa copia sbiadita e impoverita, ricalcata a penna, nella gestione Allegri 2.0. E Agnelli, che questo DNA lo porta nelle sue cellule e in ogni pensiero, non si ci rivede proprio e non sfidiamo a crederci. Quel “provo vergogna” è una crisi d’identità pronunciata dal capobranco che si guarda indietro e vede buio, senza più direzione. Smarrito, come la sua squadra, i suoi progetti, il suo calciomercato e le sue scelte in panchina, che comunque, continua a dire, non sono il principale dei problemi. E, quindi, non lo è Allegri.
E quella singola e pesantissima parola “vergogna” l’abbiamo letta e sentita più volte nelle ultime ore. Sui social è abusata, un po’ come fosse l’insulto massimo per denigrare chi rappresenta la Juventus e, quindi, chi concretizza l’amore dei tifosi. Un po’ perché i principali media italiani l’hanno cavalcata a ruota e ci hanno anche, giustamente, disegnato le prime pagine dei giornali. C’è chi dice non basti, chi la usa solo per vendicarsi della penuria vista in campo, chi semplicemente ci sfoga la sua delusione. Ma è un concetto che affonda le sue radici nella storia antropologica del mondo e che può essere applicato anche ai bianconeri di Torino.
La “cultura della vergogna” e la disfatta della Juventus
Se spulciamo nei meandri della cultura greca, il concetto della “civiltà della vergogna” è il sottofondo di letteratura e testi celebri, alla base dell’ellenismo in sé e per sé. I poemi omerici ne sono profondamente impregnati e ce lo insegna Eric Robertson Dodds nell’opera “I greci e l’irrazionale”.
Il filologo irlandese, con i suoi studi e la sua arguzia, ha ricalcato un vero e proprio modello sociale, un filo rosso imperdibile per comprendere pensieri e azioni degli eroi che ogni giorno si materializzano nelle menti degli studenti e che Omero precedentemente ha tradotto in epica. Personaggi come Achille, Ettore, Agamennone, anche quell’astuto e maledetto Ulisse che ha meritato una storia a parte, tutta sua, non potevano sentirsi pienamente realizzati in loro stessi, anche nelle loro gesta eroiche, se tali glorie e onori non fossero stati apprezzati e riconosciuti anche dalla loro comunità.
La Grecia classica ne fa proprio una questione di “esistenza”, prima ancora che di giudizio, una sorta di fuoco sacro che non può scattare solo all’interno di se stessi, ma deve trovare consistenza all’esterno, nella stima altrui. La storia di Aiace Telamonio lo illustra chiaramente. Persa la ragione a causa di un incantesimo di Atena, si lancia contro un gregge di pecore, sterminandolo. Una volta capito quanto accaduto e perso irrimediabilmente il suo onore, preferisce suicidarsi, nonostante in guerra fosse descritto come un eroe capace di dominare sul campo di battaglia e decidere le sorti del conflitto.
Un’esagerazione, starete pensando, ma più che un’enfasi iperbolica e non richiesta, si tratta semplicemente di calarsi in una civiltà in cui l’onore conta più di ogni altra cosa, anche più della propria vita. Questa è, appunto, la “cultura della vergogna” nel suo senso più profondo.
E tutto ciò come si ricollega alla crisi della Juventus? No, non stiamo istigando al suicidio i campioni bianconeri, per carità, ma quelle che molti etichettano come mancanze tecniche, tattiche, di motivazioni nel gruppo potrebbero avere una genesi più profonda, questione anche di stima e considerazione in una realtà sportiva.
Lo stesso Allegri ha fatto trapelare dichiarazioni in cui parlava delle lacune tecniche del gruppo che ha a disposizione, scaricando le colpe dei fallimenti sul campo. E i tifosi sembrano non crederci più: lo stadio raramente è pieno, anzi, e sui social la shitstorm è sempre più evidente verso la squadra e chi sta i vertici. Ancor di più, la sfiducia sembra evidente anche tra compagni di squadra, tanto che ognuno cerca di risolverla un po’ da sé.
Il meccanismo della vergogna, che è un concetto molto diverso da quello di colpa, è già scattato tra i calciatori della Juventus, tanto da farli sentire declassati dallo status che si erano conquistati a fatica nel resto della loro carriera. Pensate a un leader come Leonardo Bonucci, uno che ha vinto e trascinato anche l’Italia negli Europei, e ora viene considerato pubblicamente come un vecchietto sopravvalutato. O a Leandro Paredes, che al PSG ha vinto tanto, eppure a Torino fa fatica a mettere insieme tre passaggi in verticale. O, ancora, ad Angel Di Maria, uno dei pochi che cerca di legare il gioco, ma che raramente ha dato il meglio di sé in bianconero, se non proprio all’andata contro il Maccabi Haifa. Non può essere solo una questione fisica o di infortuni.
E poi c’è Dusan Vlahovic che forse merita un capitolo un po’ a sé. Lo vediamo segnare, quando la squadra funziona, poi sbagliare passaggi e gol elementari, come in occasione del 2-0 di Brahim Diaz in Milan-Juventus. Lui più di tutti, ora ha bisogno di sentirsi un calciatore forte e indispensabile, un talento vero, uno che quei 70 milioni spesi li vale tutti e può anche arrivare a costarne il doppio.
Quindi come può fare la Vecchia Signora a uscire da questa situazione? Sicuramente il ritiro può aiutare, per fare quadrato e rendersi immuni alle critiche dell’esterno. Per guardarsi negli occhi e darsi una nuova direzione comune, in cui ogni singolo torni al suo valore di partenza.
E poi le vittorie, perché il calcio è spietato nelle dinamiche del tutto o niente. Se porti a casa il risultato, sei un fenomeno, altrimenti sei scarso. I calciatori della Juventus, essenzialmente, hanno bisogno di ritrovare loro stessi, riscoprendosi come gruppo, enfatizzando le qualità dei compagni, recuperandone la stima massima e incondizionata. Risolvere le difficoltà della partita insieme, e non con singoli colpi di spada che vengono immediatamente intercettati. Una ricetta semplice e storica, ma che vale per ogni epoca e la squadra di Agnelli non fa eccezione.