Un’indagine condotta dalla Odm Consulting ha fatto luce su un problema molto serio, che spazza via almeno in parte il pregiudizio secondo cui i giovani non vogliono lavorare: vi è una differenza di stipendio tra i trentenni e sessantenni a parità di inquadramento.
Una leggenda narra che i giovani non abbiano alcuna voglia di lavorare, che non conoscano il vero significato della parola fatica, che non siano disposti a trascorrere ore dentro a un ufficio, in una cucina, in una fabbrica. Ormai sembra essere diventata un’usanza comune pensare questo, una strana prassi che però non tiene conto della condizione in cui i giovani di oggi si trovano a lavorare. Quando i genitori degli attuali trentenni di oggi – che verosimilmente avranno un’età compresa tra i 50 e i 60 anni, quindi possono essere catalogati tra i Boomer oppure al massimo collocati all’interno della Generazione X – hanno avuto 25-30 anni a loro volta, il mondo era diverso. Negli anni ’70-’80 l’Italia era un Paese florido, trovare lavoro era facile, non c’era bisogno di una laurea per riuscire a ottenere posti anche di rilievo, quindi spesso in quella fascia di età le persone potevano contare già su uno stipendio più o meno buono. Oggi tutto è cambiato (e non diamo la colpa solo alla pandemia, alla guerra e all’inflazione, perché sappiamo tutti benissimo che sono almeno 15 anni che è in atto una crisi economica, solo che fino a quasi tre anni, cioè prima dell’avvento del Covid, non veniva definita tale), le offerte di lavoro sono decisamente meno allettanti, i neolaureati devono accontentarsi di stage sottopagati in cui devono comunque lavorare come se fossero stati assunti per uno stipendio bassissimo, i non laureati devono invece vedersi chiudere in faccia tantissime porte (anche se ad oggi grazie alle professioni digitali pare che questo “trend” stia cambiando) e potremmo parlare all’infinito centellinando tutto quello che non va oggi nel mondo del lavoro. Basti però dire che forse non è la voglia di fare che manca, sono le opportunità valide. A questo proposito un’indagine di Odm Consulting si è soffermata sugli stipendi medi divisi per fasce d’età e quello che è emerso è che vi è un gap incredibile tra trentenni e sessantenni.
I giovani non hanno voglia di lavorare?
I giovani non hanno voglia di lavorare oppure forse non trovano una giusta collocazione per loro, perché o non vengono assunti o vengono sottopagati? Questo è un dilemma aperto che aleggia sulla nostra società da tempo immemore ormai. Ne hanno parlato imprenditori famosissimi e meno celebri, operanti in diversi settori. L’esempio lampante è quello della ristorazione, habitat popolato a quanto pare da pochissimi ragazzi in Italia.
Da un lato troviamo figure come Alessandro Borghese, Flavio Briatore che lamentano la mancanza di manodopera e attribuiscono la colpa rispettivamente alla voglia di avere weekend liberi – sappiamo benissimo che bar, ristoranti et similia lavorano prevalentemente nel fine settimana e che il giorno libero dei dipendenti non è quasi mai in un giorno compreso tra il venerdì e la domenica – e al reddito di cittadinanza (ma tanto ormai con il governo Meloni questo fenomeno potrebbe essere arginato).
Dall’altro, invece, abbiamo personalità come quella di Lino Banfi e sua figlia Rosanna – che per chi non lo sapesse sono proprietari di un locale a Roma – che invece hanno sempre ammesso di non aver mai avuto problemi a reperire personale, perché nel loro ristorante il clima è sempre stato disteso, tutti sono sempre stati rispettati e pagati adeguatamente (se non è questa una frecciatina e chi non elargisce un compenso degno, a chi tratta male i suoi sottoposti e a chi li sfrutta, diteci cos’è).
Ma non è questo un problema relegato all’ambito della ristorazione, perché pare che in Italia ci sia carenza anche di giovani operai e, secondo Edi Lazzi, Segretario generale della Fiom-Cgil di Torino, la colpa non è affatto loro, perché in realtà sono le offerte di lavoro e i contratti che non sono all’altezza delle loro aspettative, tanto che, durante una lunga intervista rilasciata al Corriere della Sera, aveva assicurato che uno dei temi centrali dell’azione sindacale delle tute blu della Cgil sarà il contrasto alla precarietà.
Detto ciò, ad avvalorare la tesi secondo cui i giovani di oggi spesso non vengono pagati adeguatamente è stata anche un’indagine di Odm Consulting, secondo cui a parità di inquadramento le retribuzioni lorde di un trentenne sono decisamente inferiori rispetto a quella di un sessantenne.
L’indagine condotta dalla Odm Consulting
Un impiegato di 30 anni guadagna esattamente il 34% in meno di uno di 60 anni. Questi sono i numeri precisi emersi dall’indagine condotta dalla Odm Consulting. Più in generale, però, allargando la nostra visuale, possiamo affermare a gran voce che le retribuzioni dei cosiddetti Boomer – cioè i nati tra il 1946 e il 1964 – e della Generazione X – cioè i nati tra il 1965 e il 1980 – presentano notevoli differenze rispetto a quelle dei Millennial – cioè i nati tra il 1981 e il 1996 – e della Generazione Z – cioè i nati tra il 1997 e il 2012 – a parità di inquadramento. Parliamo insomma di un vero e proprio generational pay gap.
Per capire meglio, possiamo dare letteralmente i numeri. La retribuzione media degli impiegati è di 33.514 all’anno ed è questo dato che dobbiamo tenere a mente. Quella dei boomer supera la media del 17,5%, quella della Generazione X del 12,2%, quella dei millennials, invece, si colloca al di sotto di questo numero dell’1,6%, mentre quella della generazione Z del 23,1%. Possiamo osservare chiaramente che c’è una differenza sostanziale tra gli stipendi medi, tanto che se volessimo prendere la fascia più alta e quella più bassa, questa si aggira intorno al 40%. E il dato che ci dovrebbe far riflettere è che più scende la fascia di età, più diminuisce il salario medio, almeno per quanto riguarda gli impiegati. Ma per le altre categorie lavorative vale lo stesso principio?
Possiamo prendere in esame la situazione attuale degli operai. Qui lo stipendio medio scende, arrivando a 27.631 euro all’anno. Anche in questo caso i boomer si collocano abbastanza al di sopra della media, superandola del 17,4% (quindi praticamente come il caso precedente), la Generazione X la supera del 12,9%, i millennials del 2,7%, mentre anche in questo caso la retribuzione della Generazione Z scende al di sotto dell’11,6%. In questo caso quindi pare essere migliore la situazione dei Millennials, ma parlando di gap questo è comunque presente, evidente, netto.
Per avere un quadro completo della situazione, però, dobbiamo prendere in esame anche i dirigenti. In questo caso, com’è facilmente immaginabile, la retribuzione media aumenta, aggirandosi attorno ai 119.173 euro annui. Quella dei boomer supera la media, ma di poco (parliamo del 6%), mentre quella della Gen X scende dell’1,5% al di sotto della media e quella dei millennials del 18,7%.
Nel caso dei Quadri, la cui retribuzione media è di 61.004 euro annui, lo stipendio dei boomer supera la media del 4,7% e quello della Generazione X dell’1,2%, mentre quella dei millennials scende sotto le media del 9,2%. Possiamo osservare che in quest’ultimo caso soltanto il gap è abbastanza basso – si aggira attorno al 13,3%, contro il 23,3% del precedente – ma è comunque presente.
Notiamo in questi ultimi casi l’assenza completa dei giovanissimi, ma a spiegarlo è lo stesso studio, su cui si legge: “Il cluster Gen Z non è stato preso in considerazione per i due inquadramenti più alti perché, considerato il recente ingresso nel mondo del lavoro, non sono presenti in maniera significativa tra dirigenti e quadri”.
Quello che notiamo inoltre è che nel caso di impiegati e operai la differenza di stipendio tra le generazioni è maggiore rispetto a quella dei dirigenti e dei Quadri. Come ha spiegato spiega Miriam Quarti, Senior Consultant e Responsabile dell’area Reward & Engagement di ODM Consulting, il motivo è riconducibile al fatto che “la maggior parte lavoratori italiani vede l’intero proprio percorso professionale all’interno di questi inquadramenti, per cui si ha uno scostamento maggiore tra i più giovani e i più anziani. Il mercato riconosce e ricompensa la maggiore expertise sul ruolo collegandola alla seniority aziendale e agli anni di esperienza”.
Detto ciò, per tornare al quesito iniziale sulla poca voglia di lavorare dei giovani, possiamo trovare una risposta: forse il problema non è affatto questo, ma è che le continue disparità di trattamento con gli adulti scoraggiano i ragazzi e le ragazze, tanto che alcuni decidono di lasciare il Paese in cerca di maggiore “fortuna”, mentre altri restano qui, ma si trovano a combattere quotidianamente per potersi affermare, per poter vedere i propri diritti equiparati a chi ha più esperienza di lui/lei (fermo restando che soprattutto in alcuni casi è giusto che lo stipendio tenga conto del grado di anzianità, ma che questo appunto dovrebbe essere proporzionale agli anni di servizio e non ci dovrebbe essere una disparità così netta), per poter abbattere anche i pregiudizi nei suoi confronti. Chi sostiene che l’Italia non sia un Paese per giovani forse non ha poi tutti i torti.