Ormai è ufficiale: Evan Gershkovich è stato condannato a due mesi di reclusione. Ma cos’è accaduto esattamente? Ecco la verità.
Evan Gershkovich, il giornalista del Wall Street Journal che era stato fermato a Ekaterinburg, in Russia, è stato condannato a due mesi (almeno) di reclusione: la sua pena, stando a quanto ha affermato la Corte di Lefortovo a Mosca, terminerà almeno il 29 maggio. Ecco tutte le informazioni in nostro possesso al riguardo.
Evan Gershkovich condannato
Evan Gershkovich, il giornalista del Wall Street Journal, è stato condannato a due mesi: la sua pena cioè terminerà il 29 maggio. Ormai è ufficiale: la Corte di Lefortovo a Mosca ha tramutato in un vero e proprio arresto il suo stato di fermo. Ma cos’era accaduto?
Tutto era partito quando il 32enne, russo di origine, ma statunitense di adozione potremmo dire – tecnicamente i genitori sono nati nel Paese guidato da Putin, ma lui ha sempre vissuto negli USA – è stato fermato proprio a Ekaterinburg. L’accusa? Lo spionaggio, che può essere punito – come recita espressamente l’articolo 276 del Codice penale – con una pena che può arrivare a 20 anni di reclusione.
In pratica – riassumendo il più possibile – pare che Gershkovich, stando a quanto ha dichiarato l’intelligence russa, “su istruzione degli Stati Uniti, stava raccogliendo informazioni su una delle imprese del complesso militare-industriale russo, che rappresentano un segreto di Stato”. I servizi segreti russi, quindi, hanno cercato di fermare le “attività illegali del corrispondente del Wall Street Journal” (almeno stando a quanto emerge dalle parole dell’agenzia Ria Novosti, che ha citato il comunicato dell’Fsb).
C’è da dire che il reporter non era stato solo a Ekaterinburg (la città russa in cui, come abbiamo anticipato, è stato di fatto arrestato): si era recato anche a Nizhny Tagil, sempre nello stesso Paese, città nota perché contiene uno stabilimento che produce carri armati, come afferma il sito indipendente Meduza.
I media locali della regione degli Urali, poi, hanno aggiunto altri dettagli: pare, infatti, che Evan non fosse solo. Insieme a lui vi era un cosiddetto fixer – che, per chi non lo spesse, in gergo giornalistico è colui che in italiano potrebbe essere definito “risolutore”, nel senso che, in casi come appunto quelli dei conflitti, assistono, aiutano e collaborano con i giornalisti, fornendo loro informazioni utili, alla luce del fatto che in genere a ricoprire questo ruolo sono tutte persone che conoscono benissimo la lingua del posto in questione, i costumi del luogo e sanno come muovercisi dentro – cioè Yaroslav Shirshikov, che lo avrebbe accompagnato nella sua visita a Ekaterinburg.
Anche lui quindi, ovviamente, è stato interpellato: stando alle sue parole, in pratica, Gershkovich si era recato lì per comprendere qualcosa in più sull’opinione pubblica circa la guerra. In sostanza, voleva capire cosa pensassero i cittadini del conflitto e della compagnia militare Wagner. A questo proposito, il suo fondatore, Yevgeny Prigozhin, in un’intervista rilasciata al Daily Beast, ha affermato: “Se vuoi posso controllare la stanza delle torture di casa mia per vedere se è qui, ma non mi pare di averlo visto tra le decine di giornalisti americani che tengo lì”.
Ma non finisce qui, perché, tornando al succitato fixer, l’uomo di cui ha parlato Meduza, fermato dalle forze dell’ordine nel ristorante Bukowski Grill di Ekaterinburg e portato fuori, chissà dove, con un maglione sulla testa, sarebbe proprio il reporter. Non abbiamo notizie certe di questo punto, ma ecco cosa invece è sicuro.
I commenti dei russi
Arrivato in tribunale, il giornalista – come ha affermato la Tass – si è dichiarato innocente e il giornale per cui lavora – in cui è approdato dopo un’esperienza nell’agenzia Afp prima e nella testata russa in lingua inglese Moscow Times poi – non ha fatto altro che appoggiarlo sempre, in tutto questo periodo. Anzi, si è detta molto preoccupata per lui e ha chiesto che possa essere rilasciato il prima possibile. Come si legge in un comunicato: “Il Wall Street Journal respinge con veemenza le accuse dei servizi di sicurezza russi e chiede l’immediato rilascio di Evan Gershkovich, un giornalista affidabile e coscienzioso. (…) Siamo solidali con Evan e la sua famiglia”.
Nel frattempo, com’è facilmente immaginabile, sono arrivati dei commenti anche da parte della Russia. In primis la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha commentato l’accaduto sul suo canale Telegram. Secondo lei, in pratica, l’attività di Evan non sarebbe stata giornalistica, nel vero senso della parola. E ha aggiunto: “Purtroppo non è la prima volta che lo status di ‘corrispondente straniero’, il visto giornalistico e l’accreditamento vengono utilizzati da stranieri nel nostro Paese per coprire attività che non sono giornalismo. Questo non è il primo noto occidentale ad essere ‘pizzicato'”. A rincararre la dose poi è stato anche il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, che ha affermato che spera che gli Stati Uniti non compiano atti di rappresaglia, sottolineato che questo “non deve avvenire”.
C’è comunque chi parla di uno scambio di prigionieri con gli USA – tra Evan e Serghei Cherkasov, un russo detenuto in Brasile e accusato dagli Stati Uniti di essere un agente dei servizi d’intelligence – ma a quanto pare questo scenario non è stato ancora discusso e il succitato Peskov ha affermato di non avere nulla da dire a questo proposito.
Un’altra certezza che abbiamo, nel frattempo, è che Gershkovich ha una sorta di “primato” (nel nuovo millennio almeno), anche se molto probabilmente avrebbe preferito non averlo: è, infatti, il primo reporter americano arrestato per spionaggio nel Paese guidato da Putin dai tempi della Guerra Fredda. L’ultimo fu Nick Daniloff: era il 1986 per essere precisi, aveva lavorato per per Us News and World Report e la sua accusa era praticamente quasi uguale a quella mossa a Evan.
Come lo stesso Daniloff ha ammesso, infatti, parlando con la Cnn: “Nel mio caso, l’Fbi aveva arrestato un sovietico a New York per spionaggio e i russi arrestarono me”. Nel suo caso a scagionarlo – dopo diverse settimane di isolamento – fu semplicemente una negoziazione, anche se – per onore di cronaca – dobbiamo aggiungere che in quel periodo tra gli USA – guidati da Ronald Reagan – e la Russia (che faceva parte dell’Unione Sovietica) i rapporti erano tutt’altro che distesi. E, non a caso, poco dopo essere tornato in libertà, Daniloff, parlando di quello che gli era appena accaduto, definì la situazione molto complessa e ammise senza mezzi termini che se non fosse subentrato Reagan e non si fosse occupato personalmente del suo caso, probabilmente sarebbe rimasto in prigione chissà per quanto tempo.