Sono stati due mesi e mezzo molto lunghi, quelli che hanno separato le elezioni americane, l’8 novembre 2016, dal giorno in cui Donald Trump entra in carica come 45° presidente degli Stati Uniti, il 20 gennaio 2017. Due mesi in cui il presidente uscente Barack Obama, che rappresentava il partito sconfitto sia nelle elezioni presidenziali che al Congresso, ha fatto di tutto per mettere i bastoni tra le ruote al suo successore. Legittima prerogativa o vendetta politica, è questione di opinioni. L’industria dell’automobile ricopre un ruolo di primo piano in questi scontri. Poiché le politiche del vecchio e del nuovo inquilino della Casa Bianca in tale materia (e nelle altre) sono radicalmente opposte, ricapitoliamo cosa lascia Obama dopo otto anni di forte intervento pubblico nel settore. Un’eredità piuttosto velenosa.
I SALVATAGGI DEL 2009
Appena entrato in carica Obama, nel 2009 l’industria americana dell’auto fu la prima ad attraversare una crisi pesantissima. Questa non è la sede per ripercorrere le complesse cause che portarono a quella situazione; comunque la sintesi è che le tre grandi corporations di Detroit furono sul punto di fallire.
La situazione era talmente grave che l’allora neopresidente fece qualcosa d’inaudito per l’economia statunitense: intervenne in modo diretto nel capitale e nella gestione delle aziende. Stanziò ben 87 miliardi di dollari per salvare General Motors e Chrysler, mentre Ford decise di non ricorrere all’aiuto federale e ristrutturò la compagnia indipendentemente, soprattutto vendendo gli allora numerosi marchi di sua proprietà.
Le tre grandi si salvarono. Tuttavia per ritrovare competitività ricorsero allo stesso metodo usato da tutte le altre industrie (comprese quelle della cosiddetta “tecnologia” che appaiono a troppa gente candide come colombe): tagliarono i costi spostando le fabbriche dagli Stati Uniti a paesi a basso costo di manodopera, prevalentemente in Messico. Ciò ha causato la perdita di molti posti di lavoro americani. La stessa città di Detroit arrivò praticamente alla bancarotta.
LEASING E FINANZIAMENTI, L’ALTRA BOLLA
Ricordate la bolla immobiliare cominciata in America che ha poi scatenato la grande crisi economica europea? Le banche gonfiarono il mercato concedendo troppi mutui a prezzi alti senza verificare che i debitori fossero in grado di ripagare gli importi prestati. Nel momento in cui questi non riuscirono più a pagare, le banche si trovarono in cassa tante case e pochi soldi. I prezzi crollarono e con essi le banche.
Il mercato americano dell’automobile sta correndo oggi su binari altrettanto pericolosi. Negli ultimi anni c’è stato un vero boom delle vendite di autoveicoli, arrivate a oltre 17 milioni nel 2016. Tuttavia queste vendite sono state effettuate per la gran parte a debito, addirittura un terzo attraverso il leasing. Le banche e le società finanziarie sono ricadute negli antichi vizi: per creare introiti hanno cominciato a concedere finanziamenti molto allegri a prezzi elevati. Se ciò era pericoloso per le case, figuriamoci per l’automobile, un bene il cui valore cala rapidamente nel tempo. Si tratta di una vera e propria bomba innescata. Se esplodesse, potrebbe causare l’ennesimo disastro.
L’ACCANIMENTO AMBIENTALISTA
L’altro punto in materia automobilistica in cui l’amministrazione Obama ha pesantemente manipolato la situazione è la questione energetica. Una fetta importante delle lobby che hanno appoggiato Obama e il Partito democratico (negli USA ogni soggetto politico si appoggia a qualche lobby, come in tutto il mondo, solo che da quelle parti la cosa è più o meno trasparente) è quella ambientalista. Quindi non stupisce che sotto Obama l’agenzia di protezione ambientale EPA sia diventata quasi più potente dell’IRS, la loro agenzia delle entrate. L’amministrazione uscente ha cercato in tutti i modi di forzare la conversione delle alimentazioni verso una trazione elettrica. Che può essere auspicabile come obiettivo di lungo termine, ma farebbe solo danni se accelerata artificialmente con troppe forzature.
In particolare c’è una legge che da tanti anni (dal 1975, derivata dalla prima crisi petrolifera) crea non pochi grattacapi ai costruttori. Si chiama CAFE, che sta per Corporate Average Fuel Economy. Ogni veicolo deve garantire un certo consumo minimo. Di per sè, l’idea generale è giusta. Tuttavia Obama fin dal 2009 ha imposto una revisione di quei limiti che si è spinta oltre il ragionevole. Limiti che tutti gli osservatori non fanatici giudicano eccessivi, misure dettate dall’ideologia e non dalla scienza. Nel 2011 ha forzato un accordo (obtorto collo, si dice) con la maggioranza dei costruttori: i modelli costruiti dal 2017 al 2025 dovranno garantire una percorrenza minima di 54.5 miglia per gallone, equivalenti a 23 Km al litro. Tanto, troppo.
DONALD TRUMP POTREBBE ROVESCIARE IL TAVOLO
Con la presidenza Trump le cose potrebbero cambiare. I primi effetti si sono già visti nei due mesi di transizione. E’ primaria la questione delle fabbriche. Il nuovo presidente minaccia una pesante tassa sulle importazioni dei prodotti dal Messico, il 35%. Accompagnata però da sgravi per le industrie che ri-localizzeranno. Ecco allora arrivare nel periodo di “interregno” gli annunci, anche se tutti giurano che non sono legati a tale questione: Ford ha cancellato l’investimento di 1.7 miliardi in Messico e ne effettuerà uno di 700 milioni in Michigan; Toyota ha annunciato un investimento complessivo pluriennale negli USA di 10 miliardi; FCA investirà un miliardo nelle sue fabbriche americane; General Motors ha recentemente annunciato un investimento di un miliardo; Hyundai aumenterà di 1.1 miliardi gli investimenti americani. I marchi tedeschi invece per il momento non hanno modificato i loro piani.
Per quanto riguarda invece la questione ambientale, Trump non ha mai fatto mistero di non apprezzare tali eccessi. Si addensano nubi minacciose sull’EPA, che il nuovo presidente ha più volte detto di voler ridimensionare. Soprattutto, Trump vorrebbe puntare molto su gas e biocarburanti. L’elettrificazione di massa sembra per il momento confinata agli annunci pubblicitari.
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