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Il muro col Messico di Trump, cos’è e perché non è una novità per gli Stati Uniti

Il muro al confine con il Messico di Donald Trump è uno dei temi centrali del neo presidente che, appena insediato, ha firmato l’ordine esecutivo per sbloccare i fondi federali e continuare la sua realizzazione. Nonostante sia passato come una sua idea, in realtà non è una novità per gli Stati Uniti: il muro esiste già. Un terzo del lungo confine tra USA e Messico ha già un muro o comunque delle barriere fisiche costruite dall’uomo, come recinti e filo spinato. Allora perché il miliardario ripete da mesi che lo costruirà? Perché il muro è il simbolo reale e tangibile della sua politica migratoria, fatta di restrizioni e divieti, e perché ha davvero in progetto di costruire la rimanente parte.

La questione è soprattutto politica. Trump ha fatto della difesa dei confini il cardine della sua politica migratoria che, in questo senso, rientra a pieno titolo nell’ideologia repubblicana. Il muro e, più in generale, i controlli alle frontiere non sono certo nuovi per gli States, soprattutto dopo l’11 settembre: le restrizioni per gli ingressi sono aumentate da quella data fatidica, così come i controlli. In tutto questo, il progetto è reale e diverso dal precedente: Trump costruirà davvero un nuovo muro.

Il primo dato di fatto è che il muro esiste già e occupa un terzo del confine tra USA e Messico, lungo oltre 3mila km (3.140 km per la precisione). La “barriera di separazione”, come viene chiamata negli States, copre parte della frontiera tra Tijuana e San Diego, attraversa Texas, New Mexico, Arizona e la California e si trova per lo più in zone cittadine o nei pressi di centri abitati: tra il deserto di Sonora, i fiumi e la natura non proprio ospitale, per circa due terzi del confine non esiste alcuna barriera costruita dall’uomo.

A oggi, il muro copre circa mille km di frontiera, metà dei quali è costituita da recinzioni alte circa 5 metri, mentre l’altra metà è per lo più di recinzioni più basse o con filo spinato non difficili da superare per un pedone. Come detto, il muro attuale passa per lo più in zone abitate. La città di Nogales è tagliata in due, in una sorta di Berlino Est-Ovest all’americana: una parte è Nogales, Messico, l’altra è Nogales, Stati Uniti.

La cultura della frontiera fa parte degli Stati Uniti, ieri come oggi. Non a caso è un tema che ricorre spesso negli anni, anche recenti, e sempre con un significato più politico che reale. Il muro attuale è il risultato di politiche prima locali e poi nazionali, con un solo obiettivo: fermare il flusso dei migranti dal Centro e Sud America.

Il primo tratto viene iniziato nel 1990 sotto la presidenza di Bush padre: la polizia di frontiera inizia a costruire barriere fisiche nella zona di San Diego per fermare il flusso di migranti in città. In quegli anni, le iniziative dei singoli Stati si moltiplicano. Siamo nel 1993, sotto la presidenza di Bill Clinton, e tre Stati che più hanno a che fare con l’immigrazione regolare mettono mano a progetti di difesa e controllo dei confini: Operation Gatekeeper per la California, Operation Hold the Line per il Texas e Operation Safeguard per l’Arizona. I tre progetti alla fine confluiscono in un piano più omogeneo nella realizzazione di barriere, protette dalle pattuglie della Polizia di Frontiera, la U.S. Border Patrol.

Nel 2005 il progetto del muro assume rilevanza nazionale. Il Congresso approva la proposta del senatore della California Duncan Hunter per ampliare la barriera e l’anno successivo arriva anche l’ok del Senato: il presidente George W. Bush firma il Secure Fence Act, che stabilisce la realizzazione di altre 700 miglia di barriera. Dettaglio importante. Il voto in Senato passa con 80 favorevoli e 19 contrari: tra i sì si contano anche quelli di Hillary Clinton, senatrice di New York, e Barack Obama, senatore dell’Illinois. La realizzazione della barriera si completa sotto la presidenza Obama. È il maggio 2011 quando l’ex presidente annuncia che la “recinzione col Messico è completa”, scatenando però l’ira dei repubblicani: parte della barriera non sarebbe conforme al disegno di Secure Fence Act perché troppo facile da scavalcare.

Il progetto di Trump è più ambizioso del semplice Secure Fence Act. Il neo presidente vuole arrivare ad almeno 1600 km di muro. L’opera sarebbe un completamento dell’attuale barriera nell’ottica di chiudere del tutto il confine: dei 3mila km, un terzo ha già barriere e recinzioni, un terzo ha barriere naturali insormontabili (deserti, fiumi e montagne), l’altro terzo sarebbe coperto dal nuovo progetto che dovrà essere un “muro” e non una recinzione. La differenza non è solo semantica: nelle intenzioni dell’inquilino alla Casa Bianca, la barriera deve essere insormontabile e impraticabile per auto e pedoni, cosa che in molte zone del muro attuale non accade. I numeri e le specifiche al momento non sono ancora ufficiali: in base alle dichiarazioni di Trump e alle stime, dovrebbe essere di circa 12 metri.

La linea del confine lungo la spiaggia di San Diego

Veniamo alla questione più spinosa: i costi e soprattutto chi pagherà. Trump ha sostenuto che sarebbe stato il Messico a pagare fin dalle prime ore di campagna elettorale e lo ha ripetuto alla firma dell’ordine esecutivo, scatenando la reazione del presidente messicano Enrico Peña Nieto: per tutta risposta, il magnate ha dichiarato che era del tutto inutile incontrarsi se il Messico non vuole pagare.

La questione è politica ma soprattutto economica: vediamo il primo aspetto. Trump vuole addossare le spese al Messico per mantenere fede al suo programma “America First“, l’America per prima: nella sua visione, sono i messicani a dover fermare gli immigrati clandestini prima ancora che arrivino al confine. Visto che loro non ne sono capaci, gli States devono ricorrere a barriere e recinzioni: non è colpa degli States se ci sono i migranti e quindi, il Messico deve rimborsare i contribuenti americani. Il ragionamento fa presa verso l’elettorato americano e soffia sullo spirito nazionalista (sempre molto forte) per cui non è mai colpa degli States: loro sono i clandestini, loro pagano. La realtà è però diversa, visto che sono gli Stati Uniti a volerlo e a costruirlo, non il Messico: voi paghereste per qualcosa che ha fatto il vostro vicino per di più con cifre a 9 zeri?

Siamo così al secondo aspetto che fa meno presa sulla gente comune ma è molto più importante e soprattutto reale: costruire il muro costa un’enormità. Le stime non sono ancora concordi perché non ci sono le specifiche ufficiali di come sarà. Per capire, facciamo riferimento ai costi dell’attuale recinzione. Secondo i dati del Government Accountability Office, i tratti più alti (di 18 piedi, poco più di 5 metri) sono costati 3,9 milioni di dollari per miglio: Trump ne vorrebbe costruire circa mille miglia nuovi, alte il doppio. Anche solo a stare nei vecchi costi, si arriva a un totale di 62 miliardi e 400 milioni di dollari.

Questo se fosse una semplice recinzione. Invece Trump vuole un muro (ricordate quando abbiamo detto che non era solo una scelta semantica?), fatto di cemento e acciaio, invalicabile: secondo la stima più vicina alla realtà, presentata dalla MIT Technology Review, una tale opera avrebbe un costo di 38 miliardi di dollari, stando molto al ribasso.

Senza contare gli intoppi burocratici: ci saranno terreni da espropriare e da pagare, commissioni da gestire, rapporti con enti intergovernativi come la International Boundary and Water Commission, commissione messicano-statunitense che gestisce le zone naturali lungo il confine. Dettaglio importante: un trattato degli anni Settanta stabilisce che nessuna struttura deve interrompere il flusso dei fiumi, come il Rio Grande, lì dove Trump vuole costruire parte del nuovo tratto.

A fronte di tutto questo, Paul Ryan ha dichiarato che il Congresso è pronto a mettere mano a una legge per sbloccare 15 miliardi di dollari. Anche volendo confermare che il muro fermerà l’immigrazione illegale (e non lo farà), l’operazione è molto più complessa di quello che sembra, checché ne dicano Trump e i suoi sostenitori.

Lorena Cacace

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