Una morte senza dignità, in barba a ogni legge sulla privacy ma soprattutto a ogni umana compassione. La vicenda dell’uomo malato terminale di tumore morto al Pronto Soccorso del San Camillo di Roma, con solo un paravento e un maglioncino a separarlo dal via vai quotidiano dei pazienti, ha dell’incredibile. A raccontare il tutto è stato il figlio, Patrizio Cairoli, collega giornalista di Askanews, che a distanza di tre mesi, ha scritto una lettera alla ministra della Salute Beatrice Lorenzin per svelare il calvario a cui il padre è stato sottoposto nel 2016 in un ospedale tra i più grandi della capitale d’Italia, nella stessa città che ospita il dicastero della Sanità pubblica. La lettera è stata pubblicata sul sito dell’agenzia stampa, diventando un caso nazionale e costringendo la Lorenzin a intervenire. “Manderò gli ispettori“, ha assicurato.
La missiva è un pugno allo stomaco. Il giornalista condensa mesi di dolore del padre e della famiglia che nulla ha potuto fare per alleviare le sue sofferenze a fronte di medici del tutto inadatti a gestire una situazione così drammatica.
“Signora ministra, sono passati circa tre mesi dal giorno in cui mio padre ha scoperto di avere un cancro a quello della sua morte; metà del tempo lo ha trascorso ad aspettare l’inizio della radioterapia, l’altro ad attendere miglioramenti che non sono mai arrivati. Nonostante la malattia, ci avevano prospettato anni di vita da trascorrere in modo dignitoso“, inizia la lettera.
In quel lasso di tempo non hanno avuto alcun aiuto, nessuno ha detto loro come affrontare un male e un dolore così terribile. “È stato sottoposto a radioterapia palliativa, ma di palliativo non aveva che il nome: mio padre aveva sempre più dolori alle ossa; alla fine, non riusciva più a camminare e anche le azioni più semplici, come alzarsi dal letto o scendere dalla macchina, erano diventate un calvario, nella totale indifferenza di medici che, oltre ad alzare le spalle e a chiedere di avere pazienza, non sapevano dire o fare altro, se non aumentare la dose di tachipirina“, continua e qui già siamo nell’assurdo.
Esistono protocolli ministeriali per la gestione del dolore oncologico: dare un normale antidolorifico a chi deve subire il dolore oncologico è da folli.
Il caso ha veramente dell’incredibile. Nessun medico avrebbe detto alla famiglia a chi rivolgersi per affrontare la fase terminale della malattia. Addirittura, li hanno avvisati che “di fronte ai dolori sempre più forti avvertiti da mio padre, era diventato necessario aspettare ‘anche 3-4-5 mesi’. Nessuno ci ha aiutati a comprendere, nessuno ci ha detto quello che avremmo dovuto fare: rivolgerci a una struttura per malati terminali e garantire, con la terapia del dolore, una morte dignitosa a mio padre“.
La beffa finale è stato il ricovero in Pronto Soccorso al San Camillo, dove hanno portato il padre ormai in fase terminale e dove finalmente gli è stata data la morfina. “Mio padre è morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso. Lo ripeto: cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi, ovvero i casi meno grave“.
Una situazione da Terzo Mondo nel cuore della capitale italiana. “Abbiamo protestato, chiesto una stanza in reparto o in terapia intensiva, un posto più riparato. Ma non abbiamo ottenuto nulla. Allora sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l’altro. Invece abbiamo dovuto insistere per ottenere un paravento, non di più, perché gli altri “servono per garantire la privacy durante le visite”; una persona che sta morendo, invece, non ne ha diritto: ci hanno detto che eravamo persino fortunati“.
Così, di fronte alla morte del proprio caro, si sono dovuti arrangiare all’italiana: hanno messo un maglioncino al paravento che li divideva dagli altri pazienti e sono rimasti lì accanto a lui fino alla fine. “Sarebbe dovuto morire a casa, soffrendo il meno possibile. È deceduto in un pronto soccorso, dove a dare dignità alla sua morte c’erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch. È successo a Roma, capitale d’Italia“, è l’amara conclusione della lettera.
I medici responsabili del nosocomio hanno tentato una prima difesa, dicendo che al Pronto Soccorso arrivano 90mila pazienti l’anno e che cercano di gestire tutto, ma che, in questo caso, “un flusso elevato di persone che, in caso di incremento di accessi di malati – non prevedibile, ma frequente – può aver in qualche modo limitato o impedito una idonea comunicazione da parte degli operatori sanitari“, come si legge nella nota emessa dal direttore sanitario, Luca Casertano.
La Lorenzin ha annunciato l’arrivo di ispettori mentre il presidente della Regione Nicola Zingaretti ha chiesto una relazione dettagliata sulla vicenda. “Sono rimasta molto colpita da questa lettera – ha affermato Lorenzin – ci sono dei punti molto gravi, ho dato mandato al mio capo ufficio stampa di reperire più informazioni dopo di che manderemo gli ispettori“.
Chi ha perso un proprio caro per tumore sa quanto sia insopportabile il dolore oncologico, ha conosciuto il senso di impotenza di fronte allo stadio terminale della malattia. L’assurdo di tutta la vicenda è che esistono dei protocolli ministeriali, operazioni standard per cui quando un medico ha di fronte un malato terminale sa cosa deve fare, sa come aiutare il paziente e la famiglia, sa che deve indirizzarli verso le strutture pubbliche della terapia del dolore che esistono, a Milano come a Roma. Che nessuno abbia garantito a questa famiglia l’aiuto necessario ad affrontare una tale sfida, nel 2016, a Roma, è semplicemente disumano.
LA LETTERA: Ecco il testo completo della lettera, pubblicata dal sito di Askanews:
“Signora ministra, sono passati circa tre mesi dal giorno in cui mio padre ha scoperto di avere un cancro a quello della sua morte; metà del tempo lo ha trascorso ad aspettare l’inizio della radioterapia, l’altro ad attendere miglioramenti che non sono mai arrivati. Nonostante la malattia, ci avevano prospettato anni di vita da trascorrere in modo dignitoso.
È stato sottoposto a radioterapia palliativa, ma di palliativo non aveva che il nome: mio padre aveva sempre più dolori alle ossa; alla fine, non riusciva più a camminare e anche le azioni più semplici, come alzarsi dal letto o scendere dalla macchina, erano diventate un calvario, nella totale indifferenza di medici che, oltre ad alzare le spalle e a chiedere di avere pazienza, non sapevano dire o fare altro, se non aumentare la dose di tachipirina. Ci avevano detto che, dopo qualche giorno, avremmo visto i benefici della terapia; poi, di fronte ai dolori sempre più forti avvertiti da mio padre, era diventato necessario aspettare ‘anche 3-4-5 mesi’. Nessuno ci ha aiutati a comprendere, nessuno ci ha detto quello che avremmo dovuto fare: rivolgerci a una struttura per malati terminali e garantire, con la terapia del dolore, una morte dignitosa a mio padre. Quando l’ho fatto, era ormai troppo tardi: il giorno dopo mio padre è finito in ospedale, al pronto soccorso del San Camillo (che non è l’ospedale dove era seguito), dove finalmente gli è stata somministrata la morfina.
Qui, la situazione si è aggravata velocemente. Mio padre è morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso. Lo ripeto: cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi, ovvero i casi meno gravi. Accanto aveva anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti che, di notte, cercavano solo un posto dove stare. Il peggio, poi, si verificava nell’orario delle visite: sala sovraffollata di parenti che portavano pizza e panini ai malati e che non perdevano l’occasione per gettare lo sguardo su mio padre. Abbiamo protestato, chiesto una stanza in reparto o in terapia intensiva, un posto più riparato. Ma non abbiamo ottenuto nulla. Allora sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l’altro. Invece abbiamo dovuto insistere per ottenere un paravento, non di più, perché gli altri “servono per garantire la privacy durante le visite”; una persona che sta morendo, invece, non ne ha diritto: ci hanno detto che eravamo persino fortunati. Così, ci siamo dovuti ingegnare: abbiamo preso un maglioncino e, con lo scotch, lo abbiamo tenuto sospeso tra il muro e il paravento; il resto della visuale lo abbiamo coperto con i nostri corpi, formando una barriera.
Sarebbe dovuto morire a casa, soffrendo il meno possibile. È deceduto in un pronto soccorso, dove a dare dignità alla sua morte c’erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch. È successo a Roma, capitale d’Italia”.
Patrizio Cairoli“.