Sopravvissuta allo sterminio degli ebrei d’Europa, scrittrice e testimone della Shoah da oltre cinquant’anni, Edith Bruck racconta in Il pane perduto la sua vita, dall’infanzia trascorsa in un piccolo villaggio ungherese dove è nata novant’anni fa, fino ad oggi.
La deportazione, il ghetto, i campi. La fame feroce del lager e il pane perduto, quel pane ancora da infornare invocato dalla madre mentre la porta cede e i gendarmi urlano a tutta la famiglia di uscire entro cinque minuti. Auschwitz, Dachau, Bergen-Belsen, Christianstadt e ancora Bergen-Belsen. La liberazione e il ritorno in Ungheria. Il pane perduto racconta anche il “dopo”, il doloroso tentativo di tornare a vivere, la costante sensazione di non trovarsi bene da nessuna parte, né a casa della sorella scampata ai lager (che non vuole sapere, non vuole ascoltare) né nella Terra promessa.
[…] Viviamo, vedremo vivendo. Le nostre vere sorelle e fratelli sono quelli dei lager. Gli altri non capiscono, pensano che la nostra fame, le nostre sofferenze equivalgano alle loro. Non vogliono ascoltarci; è per questo che io parlerò alla carta.
Alla carta Edith Bruck parla da sempre: il suo primo libro, Chi ti ama così, risale al 1959. Da allora ha sempre testimoniato sia nelle scuole sia scrivendo le proprie opere in italiano, la lingua del paese di cui si sente figlia adottiva. L’italiano le ha permesso di scrivere utilizzando un filtro, perché in ungherese, nella sua lingua materna, non sarebbe riuscita a raccontare il dolore.
In Il pane perduto ci sono anche miracoli, come quello accaduto a Dachau, quando un soldato ha lasciato nel fondo della gavetta della marmellata, la speranza, il bene del cielo e della terra, la forza per andare avanti, la volontà di sopravvivere e credere che in fondo al buio c’è la luce. E come il male feconda il male, così dal bene nasce il bene. La speranza, pura e semplice. Ma Edith Bruck, che è sopravvissuta alle atrocità della pagina più buia della storia dell’Europa, è oggi turbata e lo scrive chiaramente nel suo libro: nuovi fascismi, razzismi, nazionalismi, antisemitismi si insinuano nella società civile e minacciano di germogliare. […] che tristezza, che pericolo.
Il pane perduto si conclude con una Lettera a Dio in cui la scrittrice chiede per la prima volta qualcosa: la memoria, che è il mio pane quotidiano, per me infedele fedele, non lasciarmi nel buio, ho ancora da illuminare qualche coscienza giovane nelle scuole e nelle aule universitarie dove in veste di testimone racconto la mia esperienza da una vita.
[..] Mi chiedo da sempre e non ho ancora la risposta a che servono le preghiere se non cambiano niente e nessuno, se Tu non puoi fare niente o non senti, non vedi o sei l’invenzione di una mente superiore, inimmaginabile o sei Tu che hai inventato Te stesso? Io, che ho sempre scritto d’un fiato giorno dopo giorno, ora improvvisamente mi fermo con la mano sospesa e lo sguardo fisso sul vuoto, è nel vuoto che Ti cerco.
Noi non abbiamo né il Purgatorio né il Paradiso ma l’Inferno l’ho conosciuto, dove il dito di Mengele indicava la sinistra che era il fuoco e la destra l’agonia del lavoro, gli esperimenti e la morte per la fame e il freddo. […] Perché non hai spezzato quel dito?