Se, come un proverbio marinaresco afferma, “il buon marinaio si vede con il cattivo tempo”, tale formula può essere applicata alla massima espressione storica della categoria dei naviganti: il Regno Unito.
Il paese guidato dal governo conservatore di Boris Johnson si trova, al pari degli altri stati Europei, a dover affrontare le conseguenze della crisi bellica ucraina e le derivanti ricadute su inflazione e costo dell’energia; tuttavia, a differenza della maggior parte degli stati europei, la nazione retta dalla regina Elisabetta II si trova nella peculiare condizione di non poter fare affidamento sugli aiuti dell’Unione Europea, dopo la decisione tramite referendum popolare nel 2016 di uscire dall’UE (Brexit).
Da qui il proverbio iniziale, poiché, se il progetto di Johnson della cosiddetta “Global Britain”, una rivisitazione neo-liberale e diplomatica dell’impero britannico, sarà in grado di passare dalla propaganda elettorale alla realtà, lo si vedrà in questi mesi nei quali il Regno Unito si troverà di fronte a complesse tensioni in campo economico e politico.
La successione di eventi nefasti a cui si assiste negli ultimi anni, dalla pandemia di Covid alla guerra in Ucraina, ha determinato il crollo della fiducia dei consumatori di ben 40 punti (risultato peggiore dopo il -39 registrato nella crisi finanziaria del 2008). Questo dato, affiancato all’aumento dell’inflazione fino al 9%, ha portato il governatore della Bank of England, Andrew Bailey, ha descrivere come “apocalittica” la situazione a cui andrà incontro il paese, soprattutto vista la sua economia fortemente sbilanciata su servizi e finanza.
A guidare i rincari sono in particolare il settore energetico (+54% dovuto anche all’eliminazione del tetto alle bollette) e quello alimentare (+6%). Inevitabile e conseguente, vari sondaggi lo dimostrano, è stata la stretta sui consumi per molte famiglie britanniche, con addirittura un inglese su tre che ha “scelto” di spegnere i riscaldamenti per poter far fronte agli aumenti.
Se questi effetti economici hanno una origine estera ed internazionale, lo stesso non può dirsi per un altro indicatore: la carenza di manodopera. Per molto tempo la monarchia britannica ha attratto molti lavoratori specializzati e non grazie alle migliori condizioni salariali e la possibilità di internazionalizzazione che la patria della lingua franca planetaria offre.
Tuttavia la Brexit, e l’impossibilità di trasferirsi sull’isola senza avere già in tasca un contratto di lavoro (vincolato inoltre dal tipo di lavoro, dallo stipendio, dalle qualifiche personali, ecc.), ha enormemente diminuito la mole di manodopera che affluiva sul territorio insulare.
Le difficoltà economiche, aggravate dalla Brexit, hanno riacceso un vecchio problema del Regno Unito: l’essere ormai tale solo di nome. Alle spinte centrifughe scozzesi, si è ultimamente unita la questione del Nord-Irlanda, dove alle ultime elezioni il partito nazionalista (ossia promotore di una riunificazione tra Belfast e Dublino) Sinn Fein ha ottenuto per la prima volta dall’Accordo del Venerdì Santo del 1991, la maggioranza dei seggi in parlamento.
Effetto indesiderato anche questo della Brexit, in quanto le lunghe e tortuose trattative tra UK ed UE sugli scambi commerciali e sugli standard delle merci hanno portato alla strutturazione di una barriera doganale di fatto più forte tra l’Irlanda del Nord e la Bretagna, di quella sussistente tra la prima e il resto dell’isola irlandese.
Circostanza che ha portato molti irlandesi del nord ad interrogarsi sui benefici dell’essere divenuti una enorme zona di dogana, sospesa in un limbo tra Unione Europea e Global Britain. La Global Britain appunto, il progetto con cui Johnson intende riportare l’Inghilterra ai vecchi fasti imperiali, sbarazzandosi della farraginosa struttura di cooperazione europea; l’improcrastinabilità delle scelte odierne ripropongono il vecchio dilemma shakespeariano: “essere o non essere”?
Solo il passaggio della tempesta saprà dirci se la barca, ed il marinaio sopra di essa, avranno retto le intemperie.
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