La scossa dello scarpone è quella che ha fatto sì che il popolo di Amatrice reagisse all’altra scossa, quella del terremoto che l’ha distrutta più di un anno fa. Lo scarpone è quello degli uomini forti, di montagna, che non si arrendono, a contatto con la terra e con la sofferenza e che, con fatica e dedizione, aiutano gli altri. “La scossa dello scarpone” è anche il libro in cui Sergio Pirozzi, sindaco di Amatrice, uno che gli scarponi li indossa da sempre, racconta tutte le sue vite. Dall’adolescenza spensierata tra le verdi montagne agli anni sui campi da calcio, prima come calciatore, poi come allenatore. Quindi la carriera politica, culminata nel 2009 quando è diventato sindaco di Amatrice. Dai bei tempi in cui il problema principale era non far chiudere l’ospedale, a quelli del dramma, del dolore, in cui, da vero allenatore battagliero qual è, doveva convincere i cittadini a non arrendersi e ad andare avanti. Nonostante l’inferno, nonostante quella maledetta notte del 24 agosto 2016 quando Amatrice è stata rasa al suolo dal terremoto.
«Amatrice non esiste più», furono le prime parole di Sergio Pirozzi, alla vista delle macerie che avevano appena sommerso la città dove era cresciuto.
Con il tempo Pirozzi, il sindaco e l’allenatore, è diventato popolare (ma ne avrebbe fatto a meno) grazie al suo spirito schietto e sanguigno, al modo diretto e senza peli sulla lingua di porsi con lo Stato, affinché non abbandonasse la sua città in ginocchio. Pirozzi battagliero con Roma e arrabbiato contro gli infami che andavano ad Amatrice per farsi i selfie tra le macerie.
Pirozzi ama il calcio e, da amante del pallone (abbandonato dopo il sisma per restare a tempo pieno ad Amatrice, accanto alla sua gente: «Come potevo convincere i cittadini a rimanere se non lo facevo io per primo?») gli piace parlare della vita usando la metafora calcistica. La vita, come il calcio, è fatta di sconfitte, anche pesanti. Ma non è dalle sconfitte che nascono rivincite e vittorie? E lo ha fatto anche durante l’intervista a NanoPress, alla vigilia della presentazione del suo libro a Roma, il 24 ottobre alle 17:30, presso il Salone delle Fontane all’Eur.
Occasione, in cui, si vocifera, dovrebbe annunciare la sua candidatura a presidente della Regione Lazio con una lista civica di centrodestra. Glielo abbiamo chiesto (alla fine dell’intervista) ma lui ha glissato, dicendo che parlerà solo del libro. Il cui ricavato andrà alle zone terremotate.
Sindaco Pirozzi, dopo calciatore, allenatore e sindaco, ora anche scrittore. Com’è nato il libro “La scossa dello scarpone”?
«Il libro nasce dall’esigenza di lasciare qualcosa ai miei figli, che ho un po’ trascurato per fare l’allenatore e l’amministratore pubblico, cosa che però ho sempre considerato un atto d’amore più che una professione. Il libro era stato partorito prima del terremoto, il titolo sarebbe dovuto essere “Il mio calcio alla amatriciana”. Doveva parlare del mio impegno di amministratore, di allenatore e padre. Poi c’è stato il terremoto, e chiaramente ne ho stravolto il senso, inserendo pagine sulla tragedia e sul mondo della solidarietà, che rappresenta la vera scossa di vita».
Da qui il cambio di titolo. Qual è questo scarpone?
«Lo scarpone è quello che indossiamo ogni giorno. È lo scarpone degli uomini che stanno a contatto con la terra o fanno attività per gli altri, come gli educatori o gli insegnanti. È lo scarpone di coloro che ogni giorno si impegnano per gli altri con le loro buone azioni».
Nel libro parla delle sue vite?
«Sì, delle mie tre vite. Quella spensierata, che è l’adolescenza. La vita da sindaco e allenatore di calcio. E poi la vita dopo il terremoto, in cui sono rimasto allenatore uguale, anche se alleno una squadra diversa che è la mia comunità».
Partiamo dalla prima vita. Com’è stata l’adolescenza di Pirozzi?
«L’adolescenza è quel mondo fatato delle montagne, delle bellezze dei nostri luoghi. Oggi con la tecnologia si sono persi certi valori, sapori e odori. I ragazzi di oggi hanno una percezione più virtuale che reale. Prima per organizzare l’uscita con gli amici si andava in giro per le case a scampanellare, oggi basta un freddo messaggio su WhatsApp».
Poi la vita sui campi da calcio
«Prima dell’allenatore ho fatto anche il calciatore ma sono arrivato fino alla serie D, si vede che ero scarso. Ho giocato tanti anni a Rieti, poi a L’Aquila. Poi ho fatto l’allenatore e ho avuto la fortuna di vincere nove campionati, partendo dalla seconda categoria e arrivando come allenatore in seconda in serie B, nell’Ascoli. Un percorso fatto con gli scarponi, facendo la gavetta. Poi da quel 24 agosto ho scelto di abbandonare la carriera di allenatore per restare accanto alla mia gente».
E quindi la carriera da politico
«Ho incominciato nel ’95 come vicesindaco, poi ho fatto il consigliere provinciale di An, sono stato nella commissione bilancio, poi sindaco di Amatrice dal 2009. Fino ad allora i problemi erano quelli di un normale amministratore pubblico alle prese con le battaglie per la comunità, per non chiudere l’ospedale, per conservare le scuole, per non far morire i piccoli borghi a fronte di una politica che sacrifica i piccoli per i grandi».
Come allenatore lo immaginiamo sanguigno e battagliero. Possiamo dire che Pirozzi allenatore è uguale al Pirozzi sindaco?
«Sì, c’è un linguaggio comune sia come allenatore che come politico».
Poi il terribile sisma del 24 agosto. Qual è il suo primo ricordo di quella notte?
«Ho portato fuori di casa la mia famiglia e mi sono reso conto che il paese non c’era più. Vedendo la porta storica della città, Porta Carbonara, risalente al 400 che aveva resistito a tanti terremoti, completamente sbriciolata, ho capito quello che era successo».
Ed ecco quindi l’altra vita di Pirozzi, quella post-terremoto
«Sì, con il terremoto è cominciata una nuova vita. Alimentata dalla solidarietà, dai piccoli gesti. Senza solidarietà Amatrice sarebbe un paese morto».
Possiamo dire che se per Amatrice la solidarietà degli italiani è stata tanta è anche merito suo, del personaggio Pirozzi?
«Merito mio? Non saprei, io sono stato sempre così, un po’ cane sciolto e sempre controcorrente. Ho scelto di abbandonare il mondo potenzialmente dorato del calcio professionistico per entrare in politica, ma quella politica locale fatta con il cuore, per la comunità, che non arricchisce e non dà nessuna indennità. Ho sempre fatto scelte di cuore, sostenuto da grandi squadre».
Come ha trovato la forza di andare avanti dopo una tragedia così immensa?
«Dando l’esempio, da allenatore dovevo dare l’esempio. Avevo chiesto alla mia gente di combattere pur nelle difficoltà, e la mia gente è rimasta qui perché io sono rimasto qui. Come potevo convincere i cittadini a rimanere se non lo facevo io per primo? Non potevo abbandonare questo luogo».
Com’è oggi Amatrice?
«Il terremoto ci ha insegnato che bastano venti secondi per cambiare tutto, ma oggi c’è una nuova Amatrice. C’è un’Amatrice viva, che dovrà crescere. Spero che la comunità capisca che se questa tragedia dovesse succedere ad altri andremo ad aiutarli, come gli altri hanno fatto con noi. Se è così vuol dire che la squadra, parlando sempre per metafore, avrà futuro nel prossimo campionato».